Brucia il risultato in Virginia. Dura la sconfitta del candidato dem a governatore, Terry McAuliffe. Brucia, quasi ancor di più, il risultato in New Jersey, dove il democratico Philip Murphy, governatore uscente, conquista a stento la riconferma.

Contro un oscuro rivale, Jack Ciattarelli. «Proprio brutti, questi numeri. Sono nostri elettori, questi sono elettori che sono venuti da noi nel 2018, sono venuti da noi nel 2020, e ora ci abbandonano a frotte in due stati che dovrebbero essere nella lista dei nostri stati». Le parole di Van Jones, attivista e commentatore politico del giro di Obama, non hanno un briciolo di autoindulgenza.

La sua amara constatazione della sconfitta democratica non è neppure temperata da pur importanti successi, come la vittoria a Boston di Michelle Wu, che «fa la storia», perché simbolo della forza politica acquisita dalla comunità asiatica, o come il successo di candidati neri in città importanti come Pittsburg, Kansas City e St. Petersburg (Florida), o come il trionfante 67% ottenuto a NYC da Eric Adams.

Fanno discutere, molto più di quanto ci si potesse aspettare da un voto «fuori stagione», le elezioni di martedì in diverse città e stati, con l’aggiunta di referendum, come a Minneapolis, per la riforma di quella polizia responsabile dell’assassinio di George Loyd da cui prese forza propulsiva il movimento Black Lives Matter.

Fa discutere, innanzitutto, perché è il segnale di un partito, di un mondo, quello democratico, che scopre, quasi traumaticamente, di non avere le necessarie antenne per captare i segnali di un elettorato inquieto, irrequieto, sempre più mobile, disancorato da fedeltà un tempo inossidabili, anche nelle proprie roccaforti.

Infatti, come dice Van Jones, la sconfitta brucia soprattutto perché il Partito democratico perde pezzi del «suo» elettorato, in una situazione di spaccatura a metà del paese, dove pochi voti possono fare la differenza. Tanto meno, il Partito democratico riesce a intercettare pezzi di elettorato moderato del campo avverso.

Il suo messaggio anti-Trump non sembra proprio funzionare verso settori repubblicani pur distanti dall’ex-presidente, non perché, anche loro, siano ormai finiti sotto la sua influenza, ma perché snobbano i temi che contraddistinguino l’agenda dem, o li avversano, seppur con un piglio diverso da quello dei trumpers. Per ragioni non diverse, anche l’elettorato democratico, quello dei ceti medi urbani e quello dei sobborghi benestanti, tradizionalmente democratici, sono disinteressati a una campagna che ha Trump come principale questione e bersaglio, e che considera i candidati repubblicani, tutti, cloni di Trump e come tali da trattare nello scontro elettorale.

La Virginia era considerata un campo di una battaglia vinta in partenza dalla vecchia volpe clintoniana, un big del Democratic Party, di cui è stato anche il presidente, oltre a essere già stato governatore dello stato. A lui si sono affiancati i pezzi grossi del partito, tutti convinti che la corsa fosse una passeggiata. Un nome conosciutissimo, riconoscibile, su cui tutti erano pronti a scommettere, a esporsi a suo favore, guidati dal presidente Biden, che alla vigilia del voto, diceva da Glasgow, prima del mesto rientro a Washington: «Vinceremo, penso che vinceremo in Virginia». Lo Stato, cioè. in cui l’attuale presidente vinse nel 2020 con un margine di vantaggio di dieci punti su Trump.

Trump, l’avversario da colpire anche questa volta, nella sagoma dell’imprenditore Glenn Youngkin, che dell’ex-presidente non è la fotocopia. Anzi, è un Trump-light che fa suo tutto il repertorio trumpista, smussando l’estremismo di toni e parole di The Donald, e cavalcando con cinica abilità la questione del «controllo» dell’infanzia e dei ragazzi nella scuola dai cattivi maestri del politically correct, che è in realtà un modo per contrastare la sacrosanta battaglia contro il razzismo in America, in tutte le sue forme.

Trump, l’originale, è sempre in piedi. Un suo candidato-simbolo di queste elezioni, Mike Carey, ha vinto bene in Ohio un seggio in palio per il Congresso.

L’ex-presidente è egemone, sia nella formula strong, quella originale, sia nelle varianti, come quella del neogovernatore Youngkin. Sono anche molto attivi i movimenti del suo arcipelago, sempre più visibile la setta QAnon.

Il voto di martedì preoccupa per la vitalità e la voglia di rivincita di questo mondo, ma anche perché sono passati solo pochi mesi dall’elezione di Biden. La performance di martedì dei repubblicani sarebbe stata «normale» se fosse stata una classica elezione di medio termine, quando il partito del presidente rischia facilmente la batosta.

Biden sembra non aver neppure avuto una luna di miele. Il suo ambizioso Build Back Better Bill, un pacchetto di misure di 3,5 trilioni di dollari, è nel limbo di un senato dove la striminzita maggioranza dem è minacciata da un paio di notabili senza scrupoli.

È questo stallo che ha pesato sul voto? Ed è il suo sblocco che ridarebbe slancio all’amministrazione? Ma a che prezzo? Con quali compromessi? Il voto di martedì pone domande a cui non sarà facile rispondere e che peseranno sulla sorte di Biden e del suo partito.