Jia Zhang-ke, la Cina nel tempo della memoria
Cannes 77/Intervista Incontro con il regista cinese, che al Festival porterà in concorso «Caught by the Tides», un film che sarà anche una riflessione sul proprio cinema
Cannes 77/Intervista Incontro con il regista cinese, che al Festival porterà in concorso «Caught by the Tides», un film che sarà anche una riflessione sul proprio cinema
Dalla metà degli anni Novanta, col folgorante esordio Xiao Wu (Pickpocket, 1997), che lo rivelò al pubblico internazionale, Jia Zhang-ke, nato nel 1970, ha portato un respiro inedito nel cinema cinese e internazionale esplorando una costante elaborazione del rapporto tra presente e memoria, documentario e finzione. Con uno sguardo originale, radicale e dolce, mettendo in primo piano i cambiamenti profondi attraversati dal suo Paese.
Al Festival di Cannes porterà in concorso Caught by the Tides, un film che sarà anche una riflessione sul proprio cinema. Di questo nuovo lavoro e di alcune caratteristiche ricorrenti nella sua investigazione filmica abbiamo parlato con Jia al festival Visions du Réel svoltosi a Nyon lo scorso mese di aprile che gli ha consegnato il Prix d’honneur di questa edizione e reso omaggio con una retrospettiva parziale delle sue opere.
Nel suo cinema è sempre presente uno strato documentario. Anche nei suoi film di finzione ha filmato dei posti cinesi che sarebbero spariti. In questo senso, la sua filmografia è inscritta nel segno della memoria.
È vero, faccio dei film di finzione come fossero dei documentari e già il mio primo cortometraggio era un documentario. Per me si è trattato di una sorta di allenamento e da lì ho trovato la mia propria estetica. Amo filmare le persone nel loro stato più naturale e autentico. Il mio lavoro è la registrazione delle trasformazioni più grandi vissute dalla Cina. La mia macchina da presa è rivolta verso la gente e gli avvenimenti contemporanei nel mio Paese. Così, anche quando realizzo dei film di finzione c’è sempre una parte documentaria perché miro a cogliere le persone nel loro ambiente reale, il loro stato crudo, riflettere le relazioni che si manifestano. Direi che, tanto nella finzione quanto nei documentari, c’è una forza che mi spinge costantemente a cercare la verità. Sono convinto che ci sono delle verità, delle relazioni che non possono essere rivelate che attraverso il cinema.
Insieme alle persone, ai personaggi, sono altrettanto importanti i luoghi. A partire dal suo primo lungometraggio «Xiao Wu», i suoi film si pongono come una specie di archivio perché tanti di quegli ambienti sono scomparsi e ora esistono solo nelle immagini da lei filmate nel corso del tempo.
Ha ragione. In Cina i luoghi hanno subito delle mutazioni non meno radicali di quelle affrontate dalle persone. Quartieri, città intere sono state rase al suolo per cui i rapporti all’interno di una comunità sono cambiati enormemente. È stato il prezzo da pagare per la modernizzazione. Riguardo a Xiao Wu, la mia motivazione era quella di documentare una città che sarebbe stata completamente demolita. Così come nel 2006 con Still Life ho testimoniato delle città con storie millenarie in via di essere interamente inondate. Sono posti che hanno vissuto un destino tragico. Nei miei film gli spazi hanno la stessa importanza delle persone. Le trasformazioni non si sono mai fermate. In 24 City assistiamo a una fabbrica in via di scomparsa. I cinesi hanno continuamente vissuto su una sorta di scena il cui fondo non cessa di modificarsi e che fa parte del nostro quotidiano.
Il suo nuovo lungometraggio, «Caught by the Tides», sarà al festival di Cannes. Al centro del film c’è un personaggio femminile interpretato ancora da una volta da Zhao Tao, l’attrice che è in quasi tutti i suoi lavori. Cosa può dirci?
Il film ha impiegato ventidue anni per nascere. All’inizio, ventidue anni fa, tutto era aleatorio. Abbiamo cominciato a filmare nella mia città natale, una città produttrice di carbone, senza sapere cosa avremmo fatto di quel materiale. Non mi aspettavo che, vent’anni più tardi, mi sarei immerso in quel girato. Eravamo durante la pandemia, chiusi in casa. Io e la mia équipe abbiamo iniziato a visionare quelle scene che avevamo continuato a realizzare nel corso degli anni e a rifletterci. Finita la pandemia, abbiamo filmato la parte che si svolge ai nostri giorni. Sì, ho filmato Zhao Tao per oltre vent’anni e la ragione per la quale mi attrae sempre e voglio filmarla regolarmente è che reagisce alle trasformazioni che tutti viviamo, è sensibile ai cambiamenti dei luoghi. E c’è un altro aspetto rilevante: l’entusiasmo è scomparso e, contemporaneamente, cerchiamo un altro modo di vita. Inoltre, ciò che è affascinante in questo film è che esso accompagna il tempo, in più di vent’anni, e, insieme, è una ribellione contro il tempo perché il tempo cancella. Quindi, Caught by the Tides è un’opera contro l’oblio.
All’inizio delle riprese, oltre vent’anni fa, aveva già l’idea della storia oppure ha cominciato giusto per filmare delle cose e poi la storia si è concretizzata in seguito? Sappiamo che c’è una donna e che il silenzio ha un ruolo fondamentale.
Non pensavo che sarebbe potuto diventato un film. Avevo filmato man mano senza un’idea precisa. È stato durante il montaggio, nel periodo della pandemia, che la storia si è manifestata scoprendo i legami interiori tra quelle scene aleatorie. In molte scene si vedono persone diverse e in diverse immagini Zhao Tao non c’è. Mi sono trovato con degli archivi molto ricchi ed stato appunto al montaggio che mi sono reso conto delle relazioni tra quelle immagini apparentemente casuali. E a proposito del silenzio, sì, i personaggi parlano poco, ma tutto risiede nel fatto che non volevano parlare.
Facciamo un passo indietro in un’altra direzione. Che importanza ha avuto per lei la scoperta di Chung Kuo, Cina di Michelangelo Antonioni?
L’ho visto la prima volta in video negli anni Novanta quando studiavo cinema a Pechino e poi, qualche anno più tardi, l’ho rivisto su grande schermo grazie alla Cineteca cinese che lo proiettava. Ha avuto un ruolo immenso per chiunque lavorava nel cinema in Cina e, con il suo viaggio attraverso la Cina, Antonioni ha realizzato un’enciclopedia della società cinese coprendo il gran vuoto lasciato nella storia del cinema negli anni della rivoluzione culturale dove si producevano solo pochi film patriottici. Per questi motivi per me Chung Kuo, Cina è una pietra miliare. Antonioni ci ha insegnato che bisogna documentare la vita. Sempre.
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