Mark Cousins lo ha ritratto in un documentario dal titolo The Storms of Jeremy Thomas, visto recentemente a Cannes. Sopravvissuto ad un cancro, amato da registi e attori di tutto il mondo, Jeremy Thomas ha prodotto oltre 70 film. Come ogni anno è arrivato al festival di Cannes da Londra in macchina.

Con l’eleganza di un principe, camicia blu, occhi vispi, gioviale e cortese, Jeremy Thomas, comincia raccontando un aneddoto: «La mia compagnia, Ludovica, è italiana. Abbiamo abitato a Roma nel quartiere Monti. Una volta siamo andati in un hotel, La Posta Vecchia, un relais di lusso, ex residenza di Paul Getty, nei dintorni di Roma. Arrivati in albergo abbiamo ordinato i nostri giornali, per me il Guardian, mi dicono “Lo riceviamo tutte le mattine”, Ludo chiede il manifesto, il concierge risponde sdegnato “non riceviamo questo giornale nel nostro hotel”. Da allora, ogni volta che entriamo in un hotel, Ludo chiede sempre il manifesto. Lo legge sempre, anche quando siamo a Londra. Lo scarica ogni giorno».

Mark Cousins ha realizzato «The Storms of Jeremy Thomas». Come vede questo ritratto cinematografico?
Mark mi ha seguito nel mio viaggio in macchina a Cannes. Gli ho raccontato quello che penso del cinema e della vita. Parlo dei film come quando sono con gli amici. Se parli di cinema parli di tutto, di politica, di arte, di fotografia, di letteratura, di architettura, di musica. Il cinema contiene tutte le discipline che amo. Da 48 anni vengo a Cannes, sempre alla guida della mia macchina. Dopo Cannes andrò a Roma per una settimana, poi tornerò a Londra, sempre in macchina. Mi diverte l’esperienza di viaggiare in macchina, fermarmi dove voglio.

Il viaggio in macchina riflette il suo ritmo di lavoro? Come dicevano i romani, «festina lente», affrettati lentamente. Lei sembra muoversi lentamente ma con straordinaria energia. Esattamente. Non voglio svegliarmi ogni giorno per non fare nulla. Da giovane ho conosciuto Chris Blackwell, il fondatore di Island Records produttore di Bob Marley e di altra bella musica. Ero assistente per Harder They Come, il film con Jimmy Cliff. Chris era il produttore, veniva in studio con i calzoncini corti, sandali e spinello, sembrava essere in vacanza, ma lavorava senza interruzione, non c’era senso del dovere nel suo modo di lavorare. Ho adottato lo stesso atteggiamento nel mio lavoro. Per me andare sul set è come andare in vacanza. La gente ha un’idea del produttore come figura fredda, ma non è la verità.

Scelgo i film basandomi sui miei gusti. I 70 film prodotti non includono un solo titolo realizzato per puro guadagno. I temi dei miei film non hanno spesso forza commerciale in partenza. Sono tematiche difficili. Penso a Merry Christmas del 1981, con protagonista un omosessuale in un campo di prigionia. È un soggetto difficile per il cinema, ma l’argomento è stato introdotto nella trama del film in forma magnifica.

Come vede il futuro del cinema con tutte le nuove piattaforme? Il suo punto di vista riguardo Netflix?
Il cinema ha solo 120 anni, è agli inizi. Stanno cercando di assassinare il cinema. Ci stanno uccidendo, ma non ci riusciranno mai. Loro sopravvivono grazie a noi. Netflix è piena di film, ma non rimarranno nella storia del cinema. È una catena di montaggio tipo McDonald’s. Non voglio realizzare film che vengano dimenticati. Vorrei sapere se tutti questi film di Netflix torneranno un giorno in Cannes Classics. I film che ho prodotto sono stati mostrati a Cannes Classics, e Vernice Classics. Ho restaurato i miei film, e sono riusciti in sala, i registi di oggi s’ispirano ai film che ho prodotto. Ci sono tanti film nella scatola di Netflix, ma qualcuno sta per caso riguardando un film vecchio prodotto da Netflix?

Ha prodotto registi molto innovativi penso a Terry Gilliam, film formalmente belli, con contenuti rilevanti, emozionano, schiudono riflessioni importatati, penso a «Fast Food Nation».Può parlarci delle sue scelte?
Voglio fare film che mi danno soddisfazione. Come i vecchi film, mi piace intrattenere ma anche provocare dibattito. La trasgressione dà ossigeno ai film. Come i produttori di una volta, e ce ne sono ancora. Sono stato fortunato ad iniziare in un periodo d’oro del cinema. Ho prodotto film indipendenti, che hanno viaggiato il mondo e hanno prodotto grossi guadagni, inaspettati. Ora è molto più difficile. Ho realizzato film epici come Eureka, Merry Christmas, Mr. Lawrence, Sheltering Sky, L’Ultimo Imperatore, Piccolo Buddha. Film giganti, ora impossibili da realizzare. Allora sto lavorando con un approccio moderato.

Ma le idee sono sempre grandi. Non hai bisogno di un grosso budget. Il film di Mark Cousins, per esempio, è stato girato con due piccole camere, e ora è proiettato in sala. Tutti si lamentano di non avere soldi, ma è l’idea che conta, al cinema. Qualcuno potrebbe girare attorno a questo tavolo un film, cominciare a riprenderci, trasformare questa conversazione in una storia, magari alla fine della giornata uno di noi viene ucciso. E così hai un film. Tutto quello che occorre è creatività.

Invece di avere mille luci sul set e centinaia di persone, basta un’idea, è semplice. La tecnologia ha messo a disposizione di tutti la possibilità di raccontare per immagini.

Spesso ci tiene a sottolineare la sua visione politica, anche quando si parla di cinema. Qual è la sua posizione nei confronti di Brexit?
Sono figlio di immigrati, sono molto radicale rispetto a Brexit, così radicale che non ho tifato per l’Inghilterra ai recenti Europei di calcio, perché non volevo che Boris Johnson trovasse un pretesto per rilanciarsi. Ha rovinato la mia vita. Ha rovinato la nostra industria cinematografica. Probabilmente non è mai stato al cinema in vita sua. Al nostro governo non interessa una cultura cinematografica, non è come in Francia o in Italia. È tragico.

Ho parlato col nostro ministro della cultura e mi ha detto che il suo film preferito è uno dei James Bond, l’unico visto al cinema, non aveva visto altri film. Il cinema è l’arte più diffusa e amata, ma non in Inghilterra, dove non sanno chi è Michael Powell. Se in Inghilterra chiedi chi è Nicolas Roeg o Michael Powell non troverai nessuno che li conosce. In Francia tutti conoscono Robert Bresson. In Italia quando un regista passa lo chiamano «Maestro». Amano i loro registi, li sostengono, credono in loro, li riveriscono, gli dedicano i nomi delle strade.

Può aggiungere qualcosa alla sua relazione con Ken Loach?
Sono cresciuto in una casa con molti privilegi, con un padre famoso. Ho frequentato le scuole private, vissuto in una grande casa, andavo a scuola in Rolls Royce con l’autista. Dopo la scuola mi fu offerto un lavoro come assistente al montaggio per Ken Loach. Rebecca O’Brien mi disse di non preoccuparmi perché Ken aveva simpatia per i ragazzi aristocratici, ed era vero, ha lavorato con Roy Watts, il suo montatore, che aveva una Rolls Royce bianca. Durante quel periodo sono stato nutrito di cultura politica. Ho maturato un’ideologia di sinistra radicale, vorrei dire a Ken Loach «Sei quello che mi ha creato». Dopo Ken ho iniziato a lavorare con Bernardo Bertolucci ed ero ben attrezzato in politica. Bernardo era intensamente politico».

La conversazione si chiude, con una raccomandazione: «Scrivi che il manifesto è importante per me, e influenza il mio modo di fare cinema».