È morto a 42 anni l’artista indigeno Jaider Esbell, la spina dorsale della Biennale di São Paulo. È grazie alla sua enorme capacità di connettere mondi, e al suo instancabile lavoro quotidiano per il riconoscimento e l’affermazione dell’arte indigena contemporanea che la Biennale, istituzione mondialmente e storicamente funzionale alla costituzione di un universo artistico elitario e inaccessibile, è stata definita quest’anno ‘La Biennale Indigena’ per il maggior numero di artisti indigeni che si sia mai visto nella storia della mostra grazie alla curatela di Esbell del progetto Moquém_Surarî.

Proprio lo stesso anno che il Relatório Violência Contra os Povos Indígenas do Brasil 2020, presentato la scorsa settimana dal Consiglio Missionario Indigeno (Cimi), definisce come tragico per i popoli indigeni. Il rapporto denuncia 182 indigeni uccisi, con la complicità del governo Bolsonaro nel 2020. Un record da quando il sondaggio ha iniziato a essere pubblicato nel 1995. Mentre la numerosa presenza indigena all’interno della Biennale è vista da Esbell come una riparazione storica minima, anche considerando che la rassegna da 70 anni si svolge in territorio Guarani. L’opportunismo della stessa istituzione è stato denunciato dall’artista in una recente intervista dove aveva dichiarato di non essere soddisfatto:  aveva criticato il fatto che la Biennale si stesse appropriando della presenza indigena per valorizzare il proprio impegno politico mentre non esisteva alcun dialogo con l’istituzione, perché “il dialogo richiede un tempo di analisi, di ascolto, di silenzio, di rispetto e osservazione per cercare di guardando e cercando di capire un po’; di un altro mondo”, cosa che non sembrava interessare al sistema Biennale. Esbell aveva sostenuto, inoltre, di essersi assunto la maggior parte dell’onere economico per la partecipazione degli artisti indigeni, e aveva osservato come le positive critiche alla mostra raramente neppure avessero menzionato il progetto da lui curato Moquém_Surarî.

Eppure questa è una tra le tante conquiste di Jaider nel mondo dell’arte che riverbera, e riverbererà oltre il mondo dell’arte perché il suo lavoro non ha mai voluto essere rinchiuso dentro a quel mondo.

Non c’è dubbio sull’impatto che questo movimento di artisti indigeni sta avendo per la diffusione della realtà indigena nella società non indigena brasileira, e per lo stesso rinforzo della comunione tra gli stessi popoli indigeni brasiliani. Una testimonianza è la storica mobilizzazione di alcune settimane fa a Brasilia, contro l’approvazione da parte del Tribunale Supremo del chiamato Marco Temporal, una legge che vuole interrompere l’attribuzione delle terre indigene a quelle riconosciute nel 1988, anno della promulgazione della Costituzione brasiliana.

Jaider Esbell originario del popolo Macuxi era nato a Normandia, Roraima nel 1979. La cosmovisione della sua gente, le narrazioni mitiche e la vita quotidiana in Amazzonia costituiscono la poetica del suo lavoro che si dispiega in disegni, dipinti, video, performance e testi. La ricerca di Esbell combina discussioni intersezionali tra arte, ascendenza, spiritualità, storia, memoria, politica ed ecologia. Una delle sue maggiori elaborazioni teoriche è il concetto di “txaísmo” – un modo di tessere relazioni e ‘‘alleanze affettive’’ – dal concetto di Ailton Krenak – nei circuiti artistici interculturali basati sul protagonismo indigeno. Pur diventando sempre più noto nei circoli dell’arte non solo brasiliani, Esbell ha continuato a condividere le sue osservazioni nel suo sito – così come nei suoi numerosi post in Facebook.

Tra le sue battaglie portate avanti con grande rigore c’era quella che riguardava l’appartenenza dei popoli indigeni alla contemporaneità del mondo. Numerosissime sono state le sue presentazioni, la sua partecipazione a dibattiti, a lezioni pubbliche. Jaider è stato estremamente generoso nel condividere i suoi saperi, sia quelli legati alla vita quotidiana che  ancestrali. Una domanda che rimarrà per me senza risposta sarà quella di come riuscire a proteggere tutto ciò, facendone allo stesso tempo una questione di condividere. Gliel’ho chiesto un paio di volte. Ma non ha mai risposto. Forse era meglio non chiederselo.

L’arte di Esbell è incapace di separarsi dalla politica, anche quando non ne fa esplicito riferimento. Così come è inseparabile dalla questione spirituale e, quindi, dalla sua identità indigena. Jaider era molto più che un artista: era un saggio, uno sciamano, una persona che apriva porte e ti sapeva discretamente accompagnare tra diversi mondi. Le sue esposizioni non si limitavano mai a una semplice mostra di lavori – peraltro di una qualità che si stava sempre più si affinando come a testimonianza di una crescente coscienza di sé e della forza del proprio lavoro – ma includevano dibattiti e rituali sciamanici.

Lo faceva mosso da una grande sensibilità e spontaneità, in totale armonia con il suo pensare e concepire il mondo, il suo rapporto costante con la natura e la sua identità indigena, giammai comparabile alla macchinosa pratica di alcuni artisti e curatori impegnati a cavalcare l’onda decoloniale. “Il colonizzatore si appropriò di quasi tutto ciò che il nativo aveva, condizionando le culture originarie a ripetere i modelli della religione, della morale e dell’arte europee. Ora vogliono appropriarsi anche di ciò che non capiscono: il mistero, la magia. Temi come il sacro, la cosmogonia, la mitologia, la comunione ambientale, per la comprensione dei popoli indigeni, non si prestano a un tipo di apprezzamento tradizionale, né a un’etichettatura consueta”, ha sostenuto in una intervista. Era proprio in questo che il suo lavoro trovava la maggiore forza, nel voler e sapere mostrare, e proteggere, quel mistero.

Jaider ha sempre affermato che il sistema dell’arte indigena non ha nulla a che fare con quello degli europei. Ma cosa succede quando questi due sistemi si incontrano? Il sistema dell’arte occidentale è delle più subdole espressioni del potere capitalista neoliberale. Crea un diabolico intreccio tra effimero, bellezza, piacere e il gretto potere della materialità, del soldo e della oligarchia intorno a cui la scena del mondo dell’arte si organizza.

La morte di Jaider Esbell, commentata da molti nelle pagine dei social come “qualcosa di inspiegabile” “avvenuta nel momento di maggior felicità della sua vita” – è di pochi giorni fa la notizia della acquisizione di due suoi lavori, Carta ao velho mundo (2018-2019) e Na terra sem males (2021), da parte del Centre Georges Pompidou di Parigi –  interroga su quanto profonde siano le relazioni di potere inique, opportuniste e – fondamentalmente disumane –  a cui un artista indigeno contemporaneo originario del popolo Macuxi deve opporsi, non solo all’interno del mondo dell’arte contemporanea, ma anche del globale discordo decoloniale. Ci può anche far pensare al contenuto che viene dato alla parola ‘felicità’.

Circa un anno fa in un post su FB Esbell chiedeva pubblicamente di indicare gallerie o spazi d’arte che potessero essere interessati al suo lavoro.  Io stessa avevo proposto – senza successo – alcune sue opere in Italia. Come ricorda la critica d’arte brasiliana Daniela Labra, “in pochissimi anni Esbell ha visto il suo lavoro valorizzato del 1000% nel mercato”. Non è il solo. Approfittando di quella che sembra una seconda onda del multiculturalismo anni 90 pratiche estrattiviste nel mercato dell’arte si rivolgono ora alle soggettività più “vendibili”: neri, indigeni, LGBTs, donne, queste ultime spesso attraverso la manipolazione del lavoro di cura. Sono sempre più numerosi i casi di artisti letteramente spolpati dalle loro gallerie per poi sparire, come delle meteore. Perché le logiche del mercato concedono a pochissimi di rimanere.

Jaider non era destinato a scomparire, ma sicuramente è stata una persona che ha voluto profondamente disturbare il sistema dell’arte non solo brasiliano ma planetario.  Quanto duro deve essere stato per lui, a mano a mano che la sua popolarità cresceva, dover mediare tra questi mondi. Come dichiara la rivista SeLecT “non esiste ‘un mondo senza Jaider Esbell’, perché l’artista lascia i semi della trasformazione in continuo movimento in noi”.