I preparativi per la visita italiana di Xi Jinping – benché non ancora ufficializzata dalla Cina – procedono. Il governo, al termine di un vertice di Palazzo Chigi, ha comunicato di aver risanato le fratture dei giorni scorsi circa l’opportunità di firmare accordi con la Cina, ma il memorandum of understanding tra Roma e Pechino rimane ancora un oggetto misterioso. Le bozze circolate nei giorni scorsi non hanno chiarito la reale entità di quali accordi si andranno a firmare.

La sensazione è che si firmerà un accordo quadro, «cornice» come ha specificato la settimana scorsa il sottosegretario allo sviluppo Michele Geraci, ricco di grandi intenzioni ma dalla valenza per lo più politica: l’Italia si accoda ai paesi che vedono nella nuova via della seta, il progetto di infrastrutture e connessioni che ridisegnerà gli equilibri politici mondiali, una prospettiva utile alle proprie aziende, badando bene a rassicurare tutti, in primis gli Stati uniti e poi l’Europa.

L’ACCORDO, infatti, avrà per lo più valenza politica: sufficiente perché la Cina lo firmi e lo utilizzi per ribadire la sua attuale rilevanza geopolitica, e perché il governo italiano possa muoversi diplomaticamente in quello che nei giorni scorsi è diventato un ginepraio, dovuto alla confusione con la quale l’esecutivo ha gestito l’intera questione. Fino a ieri addirittura la stessa firma sull’accordo era parsa in bilico: il vice premier Salvini non si era certo espresso in termini entusiastici, provando a fare di sé e del proprio partito l’avamposto governativo atlantista.

C’È VOLUTO dunque il consueto summit riparatore per fare tornare tutto sui binari di una supposta uniformità governativa che andrà a verifica ben presto: martedì il premier Conte riferirà alla Camera, e se non sarà quello il momento, non passerà molto tempo per sapere quali tipi di contratti verranno firmati da Roma e dalle aziende italiane visto che Xi Jinping arriverà in Italia accompagnato da uno stuolo di imprenditori. Il nocciolo della questione, con il passare delle ore, è divenuto il «dossier» telecomunicazione: indicato in una prima bozza del Memorandum (ma scritto da Pechino), è scomparso nelle successive; si tratta del tema cui tiene di più Washington, in pressione costante per fare terra bruciata alla Huawei, avamposto cinese per quanto riguarda la corsa al 5G.

AL TERMINE DELL’INCONTRO a Palazzo Chigi si sono espressi un po’ tutti. Il vice premier Di Maio, ad esempio, da giorni va dicendo che il Mou è un accordo commerciale, senza che ci sia in realtà alcuna indicazione al riguardo (e in ogni caso la valenza politica di questi accordi è riconosciuta da chiunque), facendo addirittura un rifermento «ai porti del Sud» mai presi in considerazione da alcuna mappa della via marittima del progetto cinese.

E quindi ieri Di Maio non ha voluto sfigurare con Salvini, tendendo la mano agli Usa: «Gli Usa non hanno ragione di preoccuparsi, restano il nostro principale alleato. Ma se Trump diceva America First, io dico Italia First. Vogliamo tutelare gli interessi dei nostri imprenditori ed esportare il made in Italy nel mondo».