Nel 2021, la guerra a Gaza ha rispettato la «routine»: altri palestinesi uccisi e ulteriore distruzione nell’area, rituali dichiarazioni di vittoria da entrambe le parti. Ma ha prodotto anche due risultati non previsti: da un lato, violenti scontri in Israele fra ebrei e palestinesi, la società israeliana scossa da violenza, razzismo, pogrom; dall’altro, dopo un lungo periodo di apatia in campo internazionale, è ricomparsa con forza la «questione palestinese».

La risonanza internazionale del conflitto si è poi affievolita. Intanto l’intera regione ha registrato cambiamenti significativi anche se non pienamente percepiti. La «pace» di Donald Trump, frutto di interessi imperialisti, ha permesso a Israele di portare avanti processi in precedenza segreti: per oltre 20 anni, Israele e gli Emirati arabi uniti avevano sviluppato varie forme di cooperazione in campo economico e in materia di sicurezza, cibernetica e non solo.

L’arrivo di Joseph Biden alla presidenza statunitense ha prodotto cambiamenti di natura apparentemente minore e nascosti, ma che potrebbero avere una portata significativa. Per Emirati e Bahrein un parziale riavvicinamento all’Iran, accordi con il Qatar, un ammorbidimento dell’Arabia Saudita nel tentativo di mostrare un’altra faccia: tutto ciò potrebbe non solo allentare le tensioni con Teheran, ma anche favorire un accordo per porre fine alla guerra in Yemen.

Gli analisti che promettevano una radicalizzazione dell’Iran tale da impedire un accordo sulla questione atomica si trovano ora di fronte a una realtà diversa: i governanti israeliani stanno passando dalle minacce di un attacco militare a un tono più moderato. Washington fa sapere ripetutamente a Israele che l’opzione diplomatica è preferibile e sembra segnalare l’intenzione di porre il veto a ipotesi militari.

Negli ultimi giorni sia il primo ministro Naftali Benett che il ministro degli esteri Yair Lapid hanno ripetuto le minacce di rito chiarendo comunque che Israele si oppone a un cattivo accordo ma non a ogni accordo. Dopo diverse visite statunitensi in Israele e di inviati israeliani a Washington – fra gli altri, il ministro della difesa Benny Gantz e il capo del Mossad – sembra che nei prossimi giorni le discussioni a Vienna porteranno a una ripresa degli accordi occidentali con l’Iran, a suo tempo abbandonati da Trump.

Questa possibile distensione nell’arena regionale non deve però far dimenticare il conflitto cardinale tra israeliani e palestinesi. Dopo l’ultima guerra era diventato più naturale parlare di apartheid nei territori occupati, e più evidente che l’«unica democrazia» in Medio Oriente è una finzione che funziona bene forse per gli ebrei israeliani ma davvero male per gli altri.

Dal 1967 in poi molti hanno accettato l’«occupazione liberale» che Israele vendeva al mondo. Dopo 54 anni è molto più facile capire che si tratta di una colonizzazione violenta. La popolazione palestinese è sottoposta a un sistema brutale, lo spargimento di sangue è la norma, il saccheggio e il terrore dell’occupazione sono evidenti, come il fatto che i coloni che formano bande violente contro i palestinesi godono della collaborazione delle forze dell’ordine israeliane.

Nei giorni scorsi il presidente palestinese Abu Mazen si è recato a casa del ministro Gantz ribadendo la propria condanna del terrorismo e chiedendo agli israeliani di adottare cambiamenti atti ad alleggerire la crescente tensione nei territori. In altre parole, si riannoda la collaborazione israelo-palestinese nata a Oslo.

Cosa significa questo? Che con un po’ di compensazioni economiche e promesse di alleviare la violenza dell’occupazione, i palestinesi continueranno a collaborare con Israele per evitare scontri più violenti. Nel sud, Hamas e la Jihad islamica minacciano una ripresa del conflitto armato, ma sono disposti a evitarla se gli israeliani offriranno alcuni miglioramenti. Giocano l’influenza dell’Egitto, del Qatar e anche della Turchia da un lato, dell’Iran dall’altro.

Con una leadership palestinese disunita e oltremodo problematica, è facile per il governo di coalizione di Bennett continuare la sua linea politica. Per gli Stati Uniti e l’Europa, l’abbandono di Netanyahu ha rappresentato un trionfo. Anche per molti in Israele. Pur trattandosi di un passo storico positivo, occorre chiarire subito che il premier attuale è un estremista di destra, e per non perdere alcuni dei membri della sua coalizione e i pochi elettori continua a ripetere che il suo governo non cerca di negoziare un cambiamento della situazione attuale. Anche il ministro Lapid – centrodestra moderato? – riferisce che non ci saranno cambiamenti nel futuro prossimo.

L’ala moderata del governo – pseudo-sinistra e pseudo-liberali – crede che alcune conquiste siano degne di nota e il nuovo alleato, la Lista araba unita, chiede e talvolta ottiene alcune migliorie riguardo alla popolazione araba in Israele. Tutto questo, forse, favorisce la cecità degli israeliani, dei palestinesi e della «comunità internazionale» di fronte alla questione centrale: la lotta contro un regime di apartheid che cerca di consolidare il proprio progetto di colonizzazione senza tener conto dei palestinesi.

Senza opzioni pacifiche, la risposta inevitabile alla situazione attuale sarà lo spargimento di sangue, insieme a una diffusione del conflitto anche a regioni apparentemente più pacifiche. Il terrore nel quale vive la popolazione palestinese continua a esigere un cambiamento radicale.