Gerusalemme Est e la Cisgiordania sono lontane dai riflettori mediatici puntati sull’Ucraina e altre aree di crisi. Ma nei territori occupati giorno dopo giorno monta la tensione, si moltiplicano proteste e manifestazioni palestinesi contro l’occupazione militare israeliana che, da parte sua, usa un pugno sempre più duro.

In particolare, in questi giorni per l’uccisione di due soldati israeliani, tra sabato e martedì, in una spirale di violenze che in Cisgiordania, dall’inizio dell’anno, ha visto oltre cento palestinesi cadere sotto il fuoco dell’esercito dello Stato ebraico.

Ieri a Gerusalemme Est e in molti centri della Cisgiordania i palestinesi hanno osservato uno sciopero generale a sostegno della disobbedienza civile proclamata dagli abitanti del campo profughi di Shuafat e dalla vicina Anata che entrano oggi nel quinto giorno consecutivo di chiusura totale imposto dalle autorità israeliane dopo l’attacco armato in cui sabato notte è stata uccisa una soldatessa.

La polizia pensa che l’attentatore, il 22enne Odai Tamimi, si nasconda all’interno di Shuafat ma la stampa israeliana, citando dei servizi di sicurezza, scrive che il giovane con ogni probabilità è riuscito a scappare in Cisgiordania. I palestinesi vedono nella chiusura di Shuafat e Anata come una punizione collettiva per gli oltre 100mila abitanti.

Un’altra chiusura è scattata ieri. L’esercito israeliano ha circondato Nablus, la seconda città palestinese per grandezza in Cisgiordania, dopo le raffiche di mitra che due giorni fa hanno ucciso un altro soldato. A spararle sono stati due militanti della «Fossa dei Leoni», il gruppo armato indipendente che ha la sua roccaforte nella città vecchia di Nablus.

Ci sono solo tre punti da dove si esce, solo per motivi d’emergenza, e si entra nella città e la tv israeliana Kan ha riferito che non è chiaro per quanto tempo l’esercito terrà Nablus sigillata.

Ieri contro le chiusure hanno scioperato le università di Birzeit, Gerusalemme Est, Hebron, An-Najah e il Politecnico, oltre alle scuole del campo di Shuafat. Negozi chiusi a Gerusalemme, Hebron, Nablus e Tulkarm.

Al posto di blocco di Qalandiya sulla strada tra Ramallah per tutta la notte di mercoledì giovani palestinesi hanno lanciato sassi ai soldati pronti a rispondere con i lacrimogeni mentre roghi di spazzatura illuminavano l’oscurità.

Nel campo di Shuafat, dove cominciano a scarseggiare alcuni generi di prima necessità, centinaia di persone si sono accampate nei pressi del posto di blocco militare ma poco dopo sono state disperse da polizia e soldati con lacrimogeni e granate stordenti.

Scontri sono scoppiati all’ingresso nord di Betlemme. Un giovane è stato ferito a un occhio da un proiettile rivestito di gomma. Proteste e scontri sono avvenuti anche al checkpoint di Bet El (Al Bireh), uno dei luoghi di scontro più frequenti tra palestinesi e soldati israeliani.

La politica del pugno di ferro, intensificata da Israele dopo gli attentati della scorsa primavera a Tel Aviv e altre città, non ha raggiunto lo scopo dichiarato dal governo Lapid di «eliminare il terrorismo» e starebbe portando tanti giovani alle formazioni più militanti certe che solo la lotta armata permetterà ai palestinesi sotto occupazione di realizzare le loro aspirazioni.

Gruppi come la «Fossa dei Leoni» rappresentano agli occhi dei palestinesi una espressione dell’unità nazionale che non sanno offrire Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, e Hamas, il movimento islamista che controlla Gaza (i rappresentanti delle due formazioni stanno tenendo colloqui per la riconciliazione nazionale sotto gli auspici delle autorità algerine).

E se la politica appare deludente agli occhi dei palestinesi sotto occupazione, la militanza genera continuamente nuovi «eroi» che sostituiscono quelli uccisi da Israele. È il caso Fathi Khazem, padre di RaaD Khazem responsabile prima dell’estate di un attacco armato a Tel Aviv in cui sono rimasti uccisi civili israeliani.

Lo scorso 28 settembre, in un raid dell’esercito, è stato ucciso anche un altro figlio. Khazem, ricercato dai servizi israeliani, è diventato un simbolo pur non avendo mai compiuto un’azione particolare o aver preso le armi perché è riuscito a sfuggire alla cattura per mesi, come aveva saputo fare nella casbah di Nablus per mesi la primula rossa Ibrahim al-Nabulsi, prima di essere ucciso rifiutandosi di arrendersi.