Il vice sindaco di Gerusalemme, Aryeh Yitzhak King, ha lanciato un appello: seppellire vivi i centinaia di palestinesi arrestati, spogliati e bendati dall’esercito israeliano a Beit Lahiya e Jabaliya, «centinaia di formiche, subumani, animali».

Ong locali e internazionali sono invece al lavoro per individuare i prigionieri da video e foto: in tanti riconoscono parenti e amici. Tra loro Diaa al-Kahlout, giornalista di The New Arab (a cui poi l’esercito ha bruciato la casa); Ayman Lubad, ricercatore del Pchr; Darwish al-Gherbawi, preside di una scuola Onu; Ahmed Lubbad, insegnante; e poi barbieri, sarti, universitari.

Alcuni, liberati, hanno raccontato di essere stati presi in scuole Unrwa, picchiati, spogliati e lasciati per strada per 19 ore al freddo di dicembre. Dopo interrogatori random, sono stati rimandati indietro a piedi.

L’esercito ha detto di aver compiuto arresti di massa per trovare membri di Hamas. Il portavoce Regev ha ammesso: alcuni sono dipendenti dell’Onu, ma «potrebbero essere anche di Hamas». Per i quali, sembra la teoria di Israele, non varrebbe alcuna regola sui prigionieri di guerra.