Per le strade della capitale la bandiera palestinese spicca sui balconi bianchi dei condomini del centro. Nelle scuole del paese è stata issata accanto a quella tunisina, mentre una fotografia della cupola dorata di Al-Aqsa ha preso il posto dei cartelloni pubblicitari. Le immagini di Gaza sono tornate, per qualche settimana, a occupare la prima pagina dei giornali locali. E le manifestazioni a sostegno del popolo palestinese hanno sostituito quelle contro il governo.

CHE LA CAUSA PALESTINESE continui a far consenso in Tunisia, la politica lo sa bene. Così il premier Hichem Mechihi ne ha approfittato per ribadire la posizione del governo in un momento di particolare impopolarità: «La causa del popolo della Palestina è la nostra causa», ha detto alla stampa, provando a far tacere le voci di chi teme un accordo con Tel Aviv sul modello di quello marocchino. Sono in molti, tra i manifestanti, a puntare il dito contro le autorità, spesso accusate di mantenere un basso profilo sulla questione per evitare di infastidire troppo partner strategici e istituzioni finanziarie internazionali, in primis il Fondo monetario internazionale.

La Tunisia rimane comunque uno dei paesi più attivi sul fronte palestinese: durante i recenti bombardamenti su Gaza, infatti, la diplomazia tunisina è intervenuta a più riprese sostenendo una risoluzione per il cessate il fuoco, essendo la Tunisia uno dei membri non permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Durante il mese di maggio i tunisini sono tornati in piazza per la Palestina, come accade ogni volta che l’attenzione mediatica si sposta su Gerusalemme, Gaza o i territori occupati di Cisgiordania. Questa volta, infatti, a risuonare sotto la sede del ministero dell’Interno in Avenue Bourguiba non è stato lo slogan «il popolo vuole la caduta del regime», ma «il popolo vuole la criminalizzazione della normalizzazione» dei rapporti con Israele, insieme a «Al-Quds libera» e «siamo tutti la Palestina».

«SOTTO BEN ALI, solo manifestare per la Palestina ci era concesso. Sono le uniche manifestazioni a cui io sia mai stata prima del 2011», rievoca Syrine, studentessa di 28 anni, che ha votato il presidente Kais Saied, eletto nel 2019, anche in quanto fervente sostenitore della Palestina. Proprio sulla causa palestinese Saied ha fondato parte della sua campagna elettorale, ma una volta installatosi nel palazzo di Cartagine ha moderato i toni. È bastato il suo cambiamento di registro, più neutrale, ad allarmare l’opinione pubblica, sempre sensibile alla posizione dei propri politici rispetto alla questione palestinese. Non è un caso, infatti, che la Tunisia faccia parte dei primi paesi ad aver inviato aiuti umanitari a Gaza: un aereo militare è decollato il 24 maggio carico di medicinali sotto lo sguardo attento delle telecamere.

Il legame tra Ramallah e Tunisi viene da lontano. Per la generazione prima di quella di Syrine, la parola Palestina evoca una pagina buia che non è ancora stata scritta sui libri di storia: «Le immagini dei bombardamenti recenti mi fanno pensare al 1985. Erano le 11 del mattino, ha tremato tutto», simula con le mani Meher, venditore di sigarette per le strade di Hammam Lif (20 km da Tunisi), bambino all’epoca.

Poco lontano, solo una stazione più in là, il 1° ottobre 1985 tre caccia israeliani bombardavano la sede dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, uccidendo 68 persone. L’Olp di Yasser Arafat si si era infatti trasferita tre anni prima a Hammam Chott, località balneare di Tunisi, dopo aver abbandonato il Libano a causa dell’attacco israeliano su Beirut. Nella capitale c’è ancora chi racconta di quando Arafat – rimasto a Tunisi 12 anni, fino agli accordi di Oslo – ha passato qualche notte in una casa del quartiere. «Quella là!», «no, quell’altra!», discutono due passanti a Franceville, non lontano dal centro di Tunisi.

DEL BOMBARDAMENTO di Hammam Chott che all’epoca aprì una grave crisi diplomatica, oggi rimane un memoriale in omaggio alle vittime che fa angolo con «Via dei Martiri del 1° ottobre».
Non è stato l’unico intervento israeliano nel paese nordafricano: tre anni dopo il rai su di Hammam Chott, un commando assassinò il leader del partito Fatah Khalil al-Wazir nella sua residenza a Sidi Bou Said, non lontano dal palazzo della presidenza. «Una piccola parte della storia dell’occupazione palestinese è stata scritta in Tunisia. Schierarci con la Palestina è una questione di memoria», conclude Syrine.