Ospedali strapieni costretti a rifiutare malati, sanità pubblica e privata in tilt, numeri da incubo: è questo l’attuale scenario apocalittico libanese. Una sola parola d’ordine: wasta, che in dialetto significa «aggancio», «conoscenza», ovvero quel «contatto» giusto che serve anche per trovare un posto in ospedale e che oggi significa «vita o morte».
È questo del resto il cardine su cui uno stato assente e corrotto fin nelle viscere fa girare la società libanese da decenni. La sanità è inoltre in Libano – eccetto pochi presidi pubblici – totalmente privata, come buona parte dei settori strategici, effetto di quelle politiche di neo-liberismo sfrenato degli ultimi trent’anni e di cui il popolo non ha certo beneficiato.
«Per mio padre abbiamo pagato 2,5 milioni al giorno per il posto letto, 1.300 dollari – abbiamo dovuto pagare in dollari – per 5 dosi di Remdesivir, più 4 milioni per esami vari». Il tasso di cambio applicato è di circa 4mila lire per 1 dollaro, 1milione per 250 dollari. Per fortuna il padre di Lama ce l’ha fatta. Se l’è potuto permettere.
Tra 4 e 6mila casi, 30 e 60 morti al giorno nell’ultima settimana, positività oltre il 15% su un territorio grande come l’Abruzzo. Solo «la punta dell’iceberg» per il dottor J. Khalife, specialista di sanità pubblica e membro del comitato indipendente “Zero Covid”, che ipotizza invece 15/20mila casi giornalieri, essendo i tamponi a pagamento, non accessibili, e il monitoraggio inadeguato. I primi vaccini solo a febbraio.
L’Alto Consiglio della Difesa ha dichiarato lunedì lo stato di emergenza sanitaria. Da oggi al 25 gennaio il paese è in un lockdown strettissimo: coprifuoco dalle 17 alle 5. Uffici, banche, negozi e bar chiusi, solo gli alimentari aperti, a eccezione dei supermercati che potranno operare unicamente consegne, come pure i ristoranti.
Restrizioni anche all’aeroporto: obbligo di entrata con tampone negativo e di prenotazione in albergo a prezzo fisso di 100 dollari a notte – fino all’esito del tampone all’arrivo in aeroporto sempre a pagamento in dollari e non in lire – anche per chi ha un’abitazione privata. È ancora il solito business à la libanaise.
Il Libano attraversa dall’ottobre 2019 una profonda crisi sociale, politica ed economica che ha portato a una massiccia protesta popolare, alla svalutazione della moneta dell’80%, al congelamento dei conti in banca dei libanesi e alla dichiarazione di insolvenza a marzo. Poi il Covid, la chiusura dell’unico aeroporto da marzo a luglio, il 4 agosto la terribile esplosione che ha devastato la città, provocando circa 200 morti e migliaia di feriti. Da novembre 2019 a oggi si sono succeduti quattro premier (Hariri, Diab, Adib e ancora Hariri). Da ottobre il paese è in attesa della formazione del nuovo governo in teoria spalleggiato dalla Francia per riformare il paese e uscire dalla crisi.
L’Osservatorio per i Diritti Umani ha ieri dichiarato che nel paese è in corso «il più drastico deterioramento dei diritti umani in decenni» che il Covid ha esasperato. Un baratro dal quale il Libano e il suo popolo difficilmente usciranno indenni.