Sale ancora la tensione in Libano dopo l’uccisione del 26enne Fawas Fouad al-Samman a Tripoli. Il giovane è morto ieri mattina per le ferite da arma da fuoco riportate negli scontri con l’esercito lunedì sera. Una sessantina i feriti tra soldati e manifestanti.

Altri scontri si sono registrati dopo i funerali del ragazzo nel pomeriggio. Seconda città del Libano, Tripoli è anche una delle zone più povere del Paese. Le proteste sono riprese da un paio di settimane. I manifestanti continuano a sfasciare e dare alle fiamme banche e Atm, a bloccare le strade bruciando copertoni. L’esercito usa ora proiettili veri e non di gomma, oltre ai soliti lacrimogeni.

Stavolta non è dalla parte dei manifestanti, come era (solo) sembrato durante le proteste dell’autunno scorso. Mentre dice di aver aperto un’inchiesta sulla morte di Fouad, su Twitter posta un video dove i rivoltosi lanciano molotov e in cui appare la scritta «È così che ci esprimete la vostra gratitudine?», riferendosi alla distribuzione degli insufficienti aiuti stanziati dal governo e di cui l’esercito è incaricato.

È guerriglia. L’associazione delle banche ha annunciato ieri la chiusura di tutte le sedi tripoline fino a quando la calma sarà ristabilita. Le banche sono ancora il target principale delle proteste. Da ottobre non è più possibile disporre del proprio conto liberamente: i trasferimenti sono bloccati – impossibili quelli all’estero – e i prelievi limitati al minimo.

I fatti di Tripoli non sono però isolati. Ieri a Zouk Mosbeh, poco a nord di Beirut, i manifestanti si sono scontrati con l’esercito per il blocco dell’autostrada. A Saida e a Tiro sono negli ultimi giorni ripresi i blocchi e svariate banche sono state messe a ferro e fuoco.

Proteste anche a Beirut dove domenica 26 si sono registrati scontri in Piazza dei Martiri e presso il vicino Ring, svincolo stradale cruciale della capitale.

Il cambio di governo dopo le dimissioni del premier Hariri e l’insediamento di Diab non ha segnato la svolta nella più forte crisi economica dal periodo pre-guerra civile (1975-’90) a oggi, che ha scatenato il 17 ottobre scorso proteste pacifiche in tutto il Libano.

Le richieste disattese erano la rimozione in toto della classe politica corrotta e clientelare, la stessa da decenni, un governo tecnico che risanasse le finanze e poi elezioni. Due mesi di proteste massicce e, dopo un calo fisiologico prima di Natale, l’esplosione violenta a gennaio. Anche allora l’esercito aveva risposto duramente violando i diritti umani.

Poi il 9 marzo il paese dichiara default. Intanto il dollaro americano – usato per gli scambi con l’estero e che assieme alla lira libanese è moneta ufficiale (il cambio è di 1$=1500LL) – si trova solo al mercato nero ormai da mesi, supera le 4.200 lire e continuerà a salire. La conseguenza è l’aumento significativo dei prezzi di qualsiasi prodotto – l’economia libanese è per nulla autosufficiente – a cui si aggiungono la speculazione e la mancanza di controllo sui prezzi.

In questo quadro, l’emergenza Covid-19 ha rappresentato il colpo di grazia all’economia. Lo stesso virus non è riuscito a contenere le proteste. Lo slogan delle ultime settimane è infatti: «Meglio morire di Covid che di fame».

Il Libano dopo la guerra ha privatizzato tutti i settori strategici e i servizi essenziali ed è un esempio eccellente di neo-liberismo sfrenato. Un Paese al limite. Sono migliaia i libanesi che hanno perso il lavoro per via della crisi, centinaia le attività che hanno dichiarato fallimento.

Il governo ha annunciato ieri gli ultimi ritocchi al piano di salvataggio, ma non ha fornito dettagli. Il commento di Diab all’uccisione del giovane Fouad – «Sarà punito chi attenta alla sicurezza nazionale. Gli attacchi alla proprietà privata e pubblica e all’esercito indicano che ci sono cattive intenzioni dietro le quinte per causare instabilità», ha detto – dà il polso della posizione del governo. Ma è poco probabile che basterà a contenere tanta esasperazione e rabbia.