«Avete mai pensato cosa succederebbe se vostra figlia di 9 o 12 anni fosse violentata e restasse incinta? Potreste dirle, guardandola negli occhi, che la obbligate a portare avanti la gravidanza?».

Con questo interrogativo si è rivolta all’Assemblea legislativa dell’Ecuador la deputata di Izquierda Democrática Johanna Moreira, durante il dibattito relativo alla legge sulla depenalizzazione dell’aborto in caso di stupro, approvata giovedì con 75 sì, 41 no e 14 astensioni.

MA IL PASSO AVANTI per il paese, dove l’interruzione di gravidanza era finora consentita solo in caso di pericolo per la vita della madre e in quello di stupro contro una donna con disabilità mentale, è talmente minimo che nessuna organizzazione femminista ha avuto voglia di festeggiare.

La delusione è forte soprattutto rispetto ai limiti di tempo fissati dalla legge, resa necessaria dalla decisione della Corte costituzionale, lo scorso 28 aprile, di depenalizzare l’aborto in caso di stupro, modificando l’articolo 150 del Codice penale.

La nuova normativa stabilisce come limite massimo per l’interruzione di gravidanza in caso di violenza sessuale le 12 settimane di gestazione, che possono diventare 18 per donne, bambine e adolescenti provenienti dalle zone rurali del paese: molto al di sotto delle 20 o delle 28 settimane indicate dalle precedenti versioni del progetto di legge.

UN TERMINE, quello che infine è stato approvato che, a giudizio di Moreira, non risolve in alcun modo il problema: «Molte donne non si rendono conto di essere rimaste incinte fino alla ventesima settimana». Secondo la ricercatrice e attivista Tatiana Jiménez Arrobo, addirittura l’88% delle vittime di violenza sessuale non rientrerebbe in tali limiti di tempo.

DURISSIMO il commento dell’organizzazione femminista Surkuna: «Quello che ha fatto l’Assemblea legislativa è mercanteggiare con la vita delle vittime di stupro. Questa legge non è giusta, non è riparatrice».

E sulla stessa lunghezza d’onda si è espressa l’avvocata femminista Lita Martínez Alvarado, secondo cui «si evidenzia nuovamente come il sistema patriarcale incontri nel parlamento i suoi migliori accoliti».

C’è tuttavia anche chi vede il bicchiere mezzo pieno: «Disconoscere la vittoria di oggi significa dimenticare gli sforzi che ci sono voluti per arrivare fino a qui. Resta molto da fare, ma voglio esprimere la mia soddisfazione per il risultato raggiunto e rinnovare il mio impegno a favore delle bambine e delle donne violentate», ha dichiarato un’altra parlamentare di Izquierda Democrática, Wilma Andrade.

Che resti molto da fare non ci sono dubbi, soprattutto considerando che l’Ecuador, dove una donna che abortisce rischia fino a tre anni di carcere, figura al terzo posto in America latina per tasso di gravidanze tra le adolescenti (da 10 a 19 anni), dopo Nicaragua e Repubblica Dominicana; che nel 2020 si sono registrati 1.631 parti tra bambine da 10 a 14 anni e che le bambine con meno di 14 anni sono le principali vittime di abusi, quasi sempre da parte dei loro familiari.

INOLTRE, SE NEL 2019 su quasi 6mila aborti praticati poco meno di mille erano legali, l’81% delle donne che affrontano procedimenti penali, spesso a causa di aborti spontanei o emergenze ostetriche, sono indigene o afrodiscendenti e praticamente tutte vivono sotto la soglia della povertà.

Ma la cosa peggiore è che neppure questa legge così evidentemente al ribasso è al sicuro: il presidente Guillermo Lasso, chiamato a promulgarla, ha infatti già annunciato l’intenzione di esercitare il suo diritto di veto. «Rispetto la vita a partire dal concepimento», ha dichiarato all’indomani del voto dell’Assemblea.

E sua moglie, María de Lourdes Alcívar, non è stata da meno: la donna violentata, ha scritto, «deve essere assistita e curata, non utilizzata a fini socio-politici».