«Bozo» è un pagliaccio, un clown televisivo, creato negli Usa alla fine della guerra, e poi diffusosi nel subcontinente, compreso il Brasile, dove uscì dalla programmazione all’inizio degli anni Novanta. Prima di arrivare qui in Brasile chiesi a un giovane collega universitario se a Jair Bolsonaro gli ambienti progressisti avessero affibbiato un soprannome, e lui mi rispose “Bozo”, pagliaccio. Effettivamente, si ha l’impressione che il neopresidente, insediato a gennaio scorso, sia più actus che agens, interprete di politiche decise altrove, perfetto rappresentante di un potere che altro non è che il comitato d’affari di gruppi dominanti, interni ed esterni.

Colpisce nell’azione politica di questo Rodomonte del Brasile, la contraddizione tra la narrazione nazional-patriottica – uno dei punti di forza della sua campagna elettorale – e la pratica, che vede continue cessioni di sovranità essenzialmente verso gli Stati uniti, della cui Amministrazione (e dunque dei gruppi finanziari che le sono legati) Bolsonaro sembra essere un pronto esecutore. Del resto lui è un militare con i gradi di capitano, mentre il suo vice, Hamilton Mourão, forse persino peggiore del presidente, è un generale, all’interno di un governo imbottito di graduati provenienti dalle Forze armate brasiliane.

Giungo in questo paese ancora percorso da queimadas, violenti incendi che a macchia di leopardo devastano la foresta (non solo quella amazzonica), come ogni mattina i telegiornali mostrano impietosi, ma mi pare senza un particolare allarme, che non colgo neppure nelle conversazioni con i colleghi, alcuni vecchi amici, che incontro, a Marilia, nell’enorme Stato di San Paolo, il più importante della Repubblica Federale. È un campus universitario giovane, che ha solo, più o meno, un venticinquennio alle spalle, situato in una zona fino a mezzo secolo fa appartenente alle popolazioni indigene, espulse dall’impetuosa avanzata del “progresso” (si ricordi il motto sulla bandiera: Ordem e Progresso) alla brasiliana, in un processo di oppressione e compressione di tali popolazioni, al quale, va detto, anche Lula e Dilma (la Rousseff) avevano dato il loro contributo.

All’Unesp, campus di Marilia, si svolge il II Convegno della IGS (International Gramsci Society) Brasil, con la partecipazione di studiosi e studiose latinoamericane. Gli europei – in realtà, gli italiani – sono soltanto due, e io sono uno dei due. La presenza di giovani – tante ragazze – è incredibilmente ricca, e gratuita, ossia vengono a seguire i lavori, senza “crediti”, e intervengono senza timidezza nelle immancabili, talora aspre, discussioni, che spesso proseguono fuori della sede convegnistica. Gramsci si conferma una autentica icona della sinistra brasiliana: sinistra accademica, sinistra culturale, sinistra politica. E questi raduni, piuttosto frequenti, sono una preziosa occasione per fare il punto sul progresso degli studi, anche se le edizioni dei testi invece languono, il che non può che condizionare negativamente il dibattito, fatto sovente a partire da traduzioni parziali, talvolta infedeli.

Eppure l’interesse è tanto, e a me personalmente non è mai capitato di trovare altrettanta animosità, nel senso buono del termine, nei convegni gramsciani in Italia: in queste intensissime giornate convegnistiche ho assistito a veri tornei di citazioni per dare una certa spiegazione piuttosto che un’altra del concetto di «rivoluzione passiva», per fare un solo esempio, tornei che a un certo punto ho temuto sfociassero nelle scazzottature. E invece conducono verso fiumi di birra. Va sottolineato che l’interesse per Gramsci è assai particolare; in sintesi l’uso politico del pensiero gramsciano è dominante, sulla ricostruzione storica. In altri termini, specie ora dopo la vittoria di una destra estrema, violenta, volgare come quella rappresentata dal governo di “Bozo”, Gramsci appare una via di salvezza, almeno teorica, in attesa che aiuti a trovare la strada per la salvezza del Brasile popolare e democratico. E le difficoltà degli organizzatori, guidati da colui che è oggi il principale studioso di Gramsci nel paese, Marcos Del Roio, sono una prova che gli annunci pre-elettorali di “Bozo” non erano parole vane, quando prometteva di estirpare il cancro gramsciano dal Brasile.

E a Gramsci, e al “gramscismo”, lemma di uso piuttosto corrente qui, si attribuiscono colpe indicibili, l’ultima delle quali è, addirittura, precisamente la piaga degli incendi. Solo tre giorni or sono il ministro degli Esteri, Ernesto Araújo, partecipando a un think tank statunitense, è riuscito ad affermare che l’«allarmismo climatico» usato contro Bolsonaro, è frutto di un complotto ideologico a base, insieme stalinista e neomarxista, e ha messo sul banco degli imputati Rosa Luxemburg, Marcuse, Brecht e Gramsci. Bella la risposta del Washington Post che ha suggerito al ministro almeno di fare un controllo su Wikipedia, prima di fare certe uscite comiche.

1. continua