Ieri la Bolivia si è svegliata con un nuovo presidente, ma il Tribunale elettorale del paese non se ne è ancora accorto: alle sei del mattino, 36 ore dopo la chiusura delle urne, erano stati ufficialmente scrutinati circa il 50% dei seggi.

E mentre mezzo mondo ormai si scambiava congratulazioni pubbliche e insulti privati, le laboriose lumache elettorali continuavano a contare, comunicando «un vantaggio di 15 punti» di Luis Arce (Mas, sinistra) sul principale avversario, l’ex presidente Carlos Mesa (Comunidad Ciudadana, centrodestra), e sul lontanissimo terzo Luis Fernando Camacho (l’ultradestra razzista).

Arce avrebbe il 48,30% e Mesa il 33,24%. Numeri in allegria, in attesa che arrivi il dato ufficiale, così contundente da aver convinto tutti i rivali del Mas a alzare bandiera bianca – e il grande escluso Evo Morales a celebrare da Buenos Aires, dove è esule insieme al vicepresidente Alvaro Garcia Linera e a molta di quella sinistra indigenista che ha rivoluzionato la Bolivia.

Particolarmente gradite le congratulazioni di Luis Almagro, il potente presidente dell’Organizzazione degli stati americani, l’uomo su cui Morales confidava quando, nell’ottobre del 2019, arrivarono le prime accuse di brogli elettorali: Morales chiese a Almagro un rapporto sul voto e Almagro colse l’occasione per dichiarare i brogli come certificati e provocare il colpo di stato.

Il vincitore Luis Arce, già ministro dell’economia dei governi Morales e protagonista della fortunata traiettoria economica del paese, dichiara intanto che «l’aiuto di Morales sarà il benvenuto» ma che il prossimo «sarà il mio governo».

E il parlamento chiede ai ministri golpisti uscenti di non abbandonare il paese: per legge, durante i prossimi tre mesi possono dover rendere conto della loro gestione (la presidente ad interim dei golpisti, Jeanine Anez, ha cercato di frenare la legge chiedendo un parere costituzionale).