Se volevano piegarla non ci sono riusciti. Rimasta incinta in seguito a uno stupro, una donna indigena honduregna di 34 anni – Fausia il nome di fantasia che le è stato dato – ha denunciato il suo paese davanti al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra per averle proibito di abortire.

Appartenente al popolo Nahua, Fausia era stata aggredita da due uomini e violentata da uno di loro per ritorsione contro il suo lavoro in difesa del territorio e dei diritti umani nel dipartimento orientale di Olancho, in quello che, secondo l’Osservatorio sulla violenza dell’Università nazionale autonoma dell’Honduras, è il paese «più pericoloso» dell’America latina per le donne, con 380 femminicidi solo nel 2023 (in notevole crescita rispetto ai 308 del 2022).

ARRIVATA ALL’OSPEDALE, anziché ricevere cure e sostegno, la donna era stata pesantemente intimidita dal personale medico, che aveva minacciato di denunciarla nel caso in cui avesse abortito. E così Fausia aveva dovuto accettare una maternità forzata che le avrebbe provocato – ha denunciato il Centro per i diritti riproduttivi – «un grave danno fisico e psichico».
Malgrado la duplice violenza sofferta – da parte degli aggressori e da parte dello stato -, la donna, come ha spiegato la direttrice del Centro di diritti della donna in Honduras Regina Fonseca che l’ha assistita nella sua denuncia all’Onu, «ha deciso che non si sarebbe fermata finché non avesse ottenuto giustizia».

E LA GIUSTIZIA sono in tante ad attenderla nel paese, uno dei pochi rimasti in America latina (insieme a El Salvador, Nicaragua, Haiti e Repubblica Dominicana) in cui l’aborto è proibito in ogni circostanza, benché ogni giorno – secondo i dati della Segreteria della Salute – tre bambine con meno di 14 anni siano obbligate a portare avanti una gravidanza frutto di violenza sessuale. E fino a poco tempo fa l’unico paese in cui era vietata persino la pillola contraccettiva d’emergenza – che avrebbe risparmiato a Fausia la gravidanza indesiderata -, prima che, nel marzo dello scorso anno, l’attuale presidente Xiomara Castro firmasse un decreto esecutivo per porre fine almeno a questo divieto, introdotto dopo il golpe contro Manuel Zelaya nel 2009.

Ma se la presidente – la prima donna a governare l’Honduras – non ha ancora mantenuto la promessa della sua campagna elettorale di legalizzare l’aborto nei casi in cui la gravidanza è conseguenza di uno stupro, in cui c’è una grave malformazione del feto o in cui la vita della donna incinta è in pericolo, le organizzazioni che promuovono la causa sperano ora che il Comitato Onu per i diritti umani ordini allo stato honduregno di modificare l’attuale quadro legale, addirittura inasprito da una riforma costituzionale approvata nel 2021.

«VOGLIAMO CHE FAUSIA abbia giustizia – ha dichiarato Carmen Cecilia Martínez del Centro per i diritti riproduttivi – e che fatti come quelli che ha dovuto affrontare lei non debbano ripetersi. Gli stati devono garantire l’autonomia riproduttiva di tutte».