Trump ha ricevuto a Washington il veterano premier israeliano Benjamin Netanyahu. In apparenza sorrisi e amicizia, dopo i «duri anni» di Netanyahu con Obama. Ma non tutto è andato liscio ed è opportuno analizzare le verità nascoste dall’idillio.

Certo, è stato un incontro fra amici. Entrambi razzisti, nazionalisti, di ultradestra, dalla bugia facile. Sono demagoghi e minacciano il futuro dei rispettivi popoli, anzi, nel caso del presidente Usa, forse la minaccia è planetaria.

Trump è arrivato all’incontro dopo aver dovuto allontanare il problematico consigliere per la sicurezza nazionale, generale Michael Flynn (stimato da Netanyahu).

Nell’idilliaca conferenza stampa, il presidente statunitense ha giocato il ruolo di «amico». Ma sa ben poco del conflitto in Medio Oriente e ha trattato con accondiscendenza il povero Netanyahu, elogiandolo e indicandolo come uno che «sa come si negozia un accordo».

Tuttavia, Trump prima ha detto a Netanyahu che, per un accordo, tutte e due le parti devono fare concessioni, e poco dopo ha allarmato lo stesso premier e la destra invitandoli a limitare la costruzione di insediamenti nei territori occupati.

E il grande presidente Usa dice al grande premier israeliano che sarebbe auspicabile un grande accordo regionale e questo è oltremodo interessante. Prima dell’arrivo di Netanyahu, gli statunitensi hanno ricevuto la visita del re giordano e hanno avuto contatti con egiziani, sauditi e altri diplomatici e governanti arabi.

Gli statunitensi capiscono bene quello che il premier israeliano non vuole vedere: per i governanti arabi della regione, la soluzione al conflitto israelo-palestinese passa per la formula dei due Stati per due popoli, e comprende una clausola ancora più problematica per Netanyahu: il ritorno ai confini del 1967.

Anche se nella conferenza stampa il presidente statunitense ha detto che la cosa importante è l’accordo, non importa se uno Stato o due Stati o qualunque cosa, a condizione che le parti si intendano, l’eco della sua carezzevole amicizia non può nascondere un fattore centrale spesso dimenticato: Trump è il capo di un potere imperialista che deve gestire interessi molteplici e conflittuali.

I ministri degli esteri e della difesa, più consapevoli e «articolati», forse spiegheranno a Trump quello che egli non sa. Per loro gli interessi in Medio Oriente sono molto più complessi e vasti della sola decantata amicizia con Israele.

Giovedì, tanto una portavoce della Casa bianca quanto la rappresentante Usa all’Onu hanno ripetuto che gli Stati uniti continuano ad appoggiare la formula dei due Stati. Ma la sorpresa maggiore sono state le parole dell’ambasciatore in pectore in Israele David Friedman davanti al Senato, chiamato a convalidare la sua nomina da parte del presidente Trump.

Friedman, ebreo statunitense di estrema destra, identificato con diverse iniziative a favore degli insediamenti nei territori occupati e sostenitore della loro annessione, ora si dichiara deciso fautore della formula dei due Stati e all’annessione si oppone.

Tanto Trump quanto Netanyahu hanno tuonato contro «il terribile errore di Obama: l’accordo con l’Iran», ma entrambi sanno bene che con queste chiacchiere non potranno arrivare alla cancellazione dell’accordo.

Già Netanyahu non punta a questo; gli interessa piuttosto che le forze dell’Iran in Siria non diventino una minaccia per Israele e non si avvicinino troppo ai «confini». Il punto è che la chiave per frenare l’Iran in Siria non è nelle mani di Trump ma in quelle di Putin.

In questo quadro generale, per cercare di analizzare quello che sta accadendo realmente e dove va il Medio Oriente conviene riassumere alcuni punti fondamentali.

Trump oggi è considerato – a ragione – un pericolo per la fragile democrazia statunitense. Gli stessi problematici servizi segreti non si fidano di lui. Ma il pericolo va oltre: la grande questione è se Trump, l’avventuriero razzista, nazionalista e ultracapitalista possa mettere in pericolo la pace a livello mondiale. I suoi cinici calcoli di potere potrebbero portare a situazioni simili a quelle degli anni 1930, il periodo di Hitler e Mussolini.

Per Israele, l’incontro peggiora la situazione. La destra israeliana crede ora di poter vendere ai concittadini l’annessione tanto cara alla coalizione nazionalista e fondamentalista che domina nel paese. Ma i sondaggi indicano sorprendentemente che la maggioranza degli israeliani è a favore della soluzione dei due Stati.

In questo contesto, l’ultradestra vuole usare l’apparente simpatia del razzista Trump per proseguire con l’avanzata degli insediamenti nei territori occupati. Gli insediamenti non sono solo un modo per impadronirsi delle terre dei palestinesi, sono anche fonte di nuovi ostacoli per una possibile o teorica pace. Aumentano inoltre la possibilità di scontri sanguinosi.

Sono giorni difficili per i palestinesi di Ramallah. I messaggi statunitensi non sono chiari, il dialogo con i paesi arabi non tranquillizza, e l’elezione a Gaza di un nuovo leader espressione dell’ala più radicale peggiora i rapporti con Hamas. Eppure – non smetteremo mai di ripeterlo -, senza unità fra i palestinesi le possibilità di un accordo israelo-palestinese sono molto deboli.

Anzi: senza unità palestinese è più complicata anche la possibilità di affrontare le forze occupanti israeliane. Un vicolo cieco potrebbe incanalare disperazione e odio in un futuro prossimo molto sanguinoso. In Israele non mancano i ministri che vorrebbero una escalation per avviare nuovamente una mini-guerra con Gaza.

L’acuirsi del conflitto potrebbe anche portare a un aumento degli atti terroristici individuali, configurando una realtà molto più sanguinosa dell’attuale. E ancora una volta, bisogna chiedersi: dove sono le voci europee a favore di effettivi diritti nazionali per il popolo palestinese nel segno di una vera pace?