È stata ribattezzata «la Cumbre de la Exclusión» la nona edizione del vertice delle Americhe che ha preso il via ieri a Los Angeles e si concluderà il 10 giugno.

Il mancato invito a Venezuela, Cuba e Nicaragua, la cui conferma ufficiale è arrivata poche ore prima dell’apertura dell’incontro, è destinato a lasciare il segno, provocando critiche e defezioni.

L’assenza che pesa di più è quella del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, che l’ha giustificata sulla base del suo rifiuto verso «una politica dell’esclusione imposta da secoli» e della necessità di «perseguire la fratellanza tra tutti i popoli e paesi, anziché la separazione, la divisione e lo scontro». A sostituirlo, a Los Angeles, sarà il ministro degli Esteri Marcelo Ebrard.

CONFERMATA anche la defezione del presidente boliviano Luis Arce, per protesta contro l’assenza di pluralismo e la negazione del principio di autodeterminazione: «Un vertice delle Americhe che esclude paesi americani non è tale».

Praticamente le stesse parole – «Se non ci sono tutte le nazioni, non è un vertice delle Americhe» – usate dalla presidente dell’Honduras Xiomara Castro, che ha deciso di mandare al suo posto il ministro degli Esteri Eduardo Enrique Reina.

Assente, ma per motivi assai meno nobili, pure il presidente guatemalteco Alejandro Giammattei, in polemica con le critiche rivolte da Washington alla conferma per altri quattro anni a capo della Procura generale della contestatissima Consuelo Porras, inclusa nella lista dei funzionari corrotti elaborata dal Dipartimento di Stato Usa.

Dopo molte esitazioni ha invece confermato la sua presenza il presidente argentino Alberto Fernández, non prima, tuttavia, di essersi confrontato proprio con López Obrador sulla posizione da adottare nei confronti del vertice.

IL SUO COMPITO, come presidente pro tempore della Celac – la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici su cui si concentrano le speranze di rilancio del processo di integrazione regionale – sarà quello di farsi portavoce del rifiuto dell’organismo verso ogni politica di esclusione, sia degli Usa che dell’Organizzazione degli Stati americani.

Una posizione già sostenuta durante la III riunione dei ministri dell’Educazione della Celac, il 26 maggio, e nell’incontro con l’inviato di Biden per il Vertice delle Americhe, Christopher Dodd. «Insistiamo sulla necessità che tutte le voci siano ascoltate e tutti i paesi partecipino», aveva dichiarato, in una riunione con Ebrard, il ministro degli Esteri argentino Santiago Cafiero.

Per un breve momento si era pure ventilata l’ipotesi di un vertice parallelo della Celac a Los Angeles, subito scartata tuttavia per la sua evidente impraticabilità, non potendo, per esempio, Nicolás Maduro entrare in territorio statunitense senza essere arrestato.

E al presidente argentino è arrivata proprio la benedizione di Maduro: «La sua voce ferma sarà una delle più potenti nel mettere in discussione la politica di esclusione e il tentativo di dividere l’America latina e i Caraibi. Tutto il nostro appoggio!», ha twittato il 27 maggio scorso da Cuba, durante il vertice dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli delle Americhe di cui fanno parte, tra gli altri, Cuba, Bolivia e Nicaragua, oltre naturalmente al Venezuela.

SE INSOMMA BIDEN puntava al vertice delle Americhe per rilanciare le relazioni con l’America latina, recuperando il terreno perso a tutto vantaggio della Cina, di sicuro non è partito con il piede giusto.

Né è probabile che un vero cambio di passo si registri durante i giorni del vertice, quando si parlerà delle principali preoccupazioni degli attori regionali, a partire dai limiti evidenziati dalla pandemia «nei sistemi sanitari, economici, educativi e sociali, comprese le minacce alla democrazia, la crisi climatica e la mancanza di accesso equo a opportunità economiche, sociali e politiche».