I cartelli sui muri dell’albergo divenuto residenza per i profughi dicono: «non gettare le immondizie qui», annuncio bilingue tedesco e arabo, la macchina organizzativa tedesca dell’accoglienza non lascia nulla al caso. È solo un segno, uno dei tanti, di quell’attenzione che nella metropoli tedesca, e nel resto della Germania, si concentra sui migranti: discussioni, attivismo culturale ma anche scontro politico e strumentalizazione, quanto è accaduto a Colonia dice molto.

Lo stesso vale per la Berlinale che nelle scelte artistiche del direttore Dieter Kosslick sostiene pienamente la politica merkeliana. Storie di migrazioni, esodi, confini scorrono questi giorni sugli schermi, è come se la questione dei migranti avesse cancellato tutto il resto, o quantomeno lo avesse stemperato; conflitti sociali, crisi economica, va tutto bene qui e pochi – come Volker Koepp nel suo Landstuck presentato al Forum – ci dicono che i temi sensibili sono anche molti altri.

Rafi Pitt è pure lui un «migrante», è nato in Iran e durante la guerra Iran/Iraq è fuggito a Londra. Soy Nero è girato sul confine tra Stati uniti e Messico, un confine geografico, migliaia di chilometri di sbarramenti,pattuglie armate, morti quotidiane, e mentale, che i giovani messicani e non solo col sogno di «essere americani» si portano dietro anche quando riescono a attraversarlo. Così il protagonista che arriva a Los Angeles con l’obiettivo di trovare il fratello emigrato anni prima e di arruolarsi come altri in famiglia nell’esercito americano per avere la «green card». «Vuoi finire senza un braccio o morto come tuo cugino? » gli grida il fratello facendosi credere nella villa pacchiana di Beverly Hills re per una notte, quando ovviamente è solo uno della servitù.

Nero arriva così in un deserto Afghanistan o Iraq poco importa continuando a ripetere «io sono americano» al sergente nero che lo chiama «tacos». Il resto è molta scrittura prevedibile e poca apertura (narrativa) seguendo uno schema pieno di buone intenzioni.

A Chicago muore più gente che in Iraq, «Please pray 4 my city» scandisce il rapper Nick Cannon mentre i numeri delle statistiche ci informano che nel cuore dell’«America sono state uccise 7356 persone tra il 2001 e il 2015 contro le 4424 in Iraq tra il 2003 e il 2011. Chi-Raq il nuovo film di Spike Lee (ne ha parlato già il 4 dicembre 2015 su queste pagine Giulia D’Agnolo Vallan, ndr) è invece completamente immerso nella sua realtà oggi, nell’America delle armi e dei potenti gruppi economici che ne controllano l’uso influenzando le scelte della politica, la grande sconfitta in fondo di Obama il cui ritratto nella galleria dei conservatori Bush, Condoleeza ecc, che decora l’ufficio del generale neppure c’è.

Chi—raq non risparmia nulla, appassionato e feroce come il grido di una slam poetry combattente (ma senza spargere una goccia di sangue) mette sotto accusa la politica americana che spende miliardi di dollari nelle guerre e nelle ricostruzioni postbelliche, Iraq in testa, e non trova fondi per recuperare le sue periferie, per l’istruzione, per le sue classi povere. Armi, terribile ossessione manipolata strategicamente nella texture mentale dell’educazione, complici leggi che quasi ne aiutano la proliferazione.

«No peace, no pussy», niente pace, niente figa. Di fronte l’ennesimo bambino morto ammazzato nella guerra tra gang, le donne african american anche le compagne dei gangster entrano in sciopero: se non si ferma la guerra tra bande loro non scoperanno più. Lee usa come riferimento, molto libero, la «Lisistrata» di Aristofane (è anche autore della sceneggiatura insieme a Kevin Wilmott), mescola musical, commedia, coreografie fiammeggianti, sermoni religiosi, il coro in versi affidato a Samuel Jackson per un film dentro alla comunità african american a cui comunque non risparmia le critiche, a cominciare dalla violenza interna nella guerra tra gang.

Per questoq» è la scommessa forte di un cinema declinato al presente, che inventa la sua forma per starci dentro. Un cinema politico ma non conformista, che sa usare tutte le gradazioni e le temperature dell’immaginario per lanciare il suo grido senza nascondere responsabilità complici. Con coraggio e passione sempre più rari.