«Non mi sentirò mai al sicuro, in nessun luogo con questi bombardamenti. Una bomba questa mattina è esplosa accanto a casa», raccontava lo scorso 9 ottobre Asmaa Tayeh, giovane scrittrice palestinese nata e cresciuta nel campo profughi di Jabaliya. Commentava, ancora sconvolta, i pesanti raid aerei cominciati due giorni prima, in rappresaglia per l’attacco lanciato da Hamas nel sud di Israele. Non era la prima volta che Tayeh faceva i conti con bombe e missili.

LE OPERAZIONI militari israeliane del 2008, del 2012, del 2014 e del 2021 hanno scandito l’esistenza di una generazione di palestinesi di Gaza. «Ma qualcosa di così brutale non l’avevo ancora provato», aveva aggiunto la scrittrice, poi sfollata a sud nei giorni successivi con la famiglia.

Jabaliya dopo quel giorno è stato colpito ancora il 12, il 19 e il 22, con esiti devastanti: decine di morti e feriti, centinaia di casa distrutte. Ieri sera l’attacco decisivo. Sei bombe hanno sbriciolato in un attimo numerosi edifici in un’area del campo uccidendo 100 persone, forse centinaia.

Asmaa Tayeh che nella sua giovane vita ha conosciuto solo le guerre contro Gaza, non era ancora nata 36 anni fa quando proprio a Jabaliya cominciò la prima Intifada, la rivolta contro l’occupazione militare israeliana che fece sognare a milioni di palestinesi la creazione in breve tempo dello Stato di Palestina. Ha sentito parlare dai suoi genitori del «sacrificio» di Hatem al-Sisi, il 17enne ucciso a Jabaliya il 9 dicembre 1987 da una pallottola al cuore sparata da un soldato israeliano alle manifestazioni di protesta seguite all’incidente stradale tra un furgoncino palestinese e un pesante camion militare israeliano che il giorno prima era costato la vita a otto lavoratori gazawi. Le proteste si diffusero rapidamente agli altri campi profughi di Gaza, poi in villaggi e città, quindi a Gerusalemme est e in tutta la Cisgiordania. Così vide la luce la prima Intifada di cui Jabaliya ne resta il simbolo.

Negli anni tra il 1987 e il 1993, il campo fu non solo il terreno di scontro principale tra ragazzi palestinesi che lanciavano sassi e militari israeliani. Fu anche il laboratorio dei comitati popolari, strutture politiche di base che avevano il compito di organizzare le manifestazioni contro l’occupazione e garantire la sopravvivenza della popolazione.

SI DICE che Khalil Al Wazir (Abu Jihad), il leader militare in quel periodo del partito Fatah – un commando israeliano lo assassinò a Tunisi nell’aprile 1988 – abbia faticato non poco per prendere il controllo dei comitati popolari di Jabaliya che, almeno nella prima fase dell’Intifada, si proclamavano autonomi da ogni partito.

Nella prima Intifada, è stato anche il luogo di incontro principale tra attivismo internazionale e causa palestinese. Finché l’accesso a Gaza è stato garantito alle delegazioni straniere, Jabaliya è stato una delle aree di intervento principale per i programmi di cooperazione bilaterale e delle ong.

IL CAMPO di Jabaliya, perciò, per tutti è Gaza. È il volto di Gaza e la rappresentazione della questione dei profughi palestinesi. Il più grande degli otto campi per rifugiati, copre un’area di soli 1,4 km quadrati che accolgono in condizioni di densità eccezionale e povertà estrema 120mila profughi.

Nel 1948 vi si stabilirono palestinesi per la maggior parte fuggiti o cacciati via dai villaggi del sud della Palestina. Oggi i suoi abitanti sono in prevalenza giovani con meno di 18 anni e compongono oltre la metà della popolazione, autosufficiente un tempo e che ora dipende dall’assistenza alimentare dell’Unrwa. Così come dai rifornimenti idrici con le autocisterne, dato che il 90% dell’acqua contenuta nei sette pozzi all’interno del campo non è adatta al consumo umano.

DISUMANE erano e restano le condizioni di vita. Dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 tra Israele e l’Olp di Yasser Arafat, furono avviati lavori per dotare delle infrastrutture di base Jabaliya, noto fin a quel momento per le sue fogne a cielo aperto. Furono asfaltate strade e incanalati gli scarichi delle acque nere. Ma quei lavori si dimostrarono, prima ancora che terminassero, del tutto insufficienti di fronte all’aumento demografico e ai bisogni crescenti della popolazione in rapido aumento.

La disoccupazione oggi supera il 60% e ne pagano le conseguenze soprattutto i più giovani. Solo pochi di loro hanno o, meglio, avevano trovato spazio nelle quote di manovali di Gaza (23mila) che nell’ultimo anno hanno ricevuto il permesso per entrare in Israele.

Il sovraffollamento e la mancanza di spazio sono un peso che schiaccia Jabaliya. Però non hanno impedito che nel campo avessero vita attività educative, culturali e sportive, alle quali ha contribuito anche l’Italia.

A ridosso del campo profughi è stato realizzato il programma italiano Green Hopes volto a realizzare progetti ricreativi per ragazzi e le loro famiglie nei distretti del nord di Gaza, ora ridotti in distese di macerie.

A Jabaliya si sono svolti i raduni annuali di Sport sotto l’assedio e meno di un anno fa, 10 giovani attori e attrici italiani e palestinesi hanno lavorato a una rivisitazione del testo dell’Odissea, per parlare del diritto al ritorno.

UNA COLLABORAZIONE sfociata in una performance congiunta andata in scena a Gaza il 7 dicembre scorso con grande successo. Qualche giorno fa, uno degli attori palestinesi, colui che aveva interpretato Odisseo, è rimasto ucciso in un bombardamento israeliano.