«Qaderi non era un giornalista. È in carcere per questioni personali, come utente dei social. È stato accusato da altri, non dai Talebani». Il mawlawi Naeem-ul-haq Haqqani nega che il poeta e giornalista di Radio Nowruz Khaled Qaderi, arrestato dall’intelligence dei Talebani il 17 marzo e condannato il 7 maggio da un tribunale militare a un anno di reclusione, sia in prigione per aver criticato l’Emirato.

VESTITO GRIGIO, mani incrociate sul ventre, il mawlawi è a capo del dipartimento per l’Informazione e la cultura della provincia occidentale di Herat. Parla lentamente, enfatizzando le bellezze della città: «Herat è una città storica, d’arte e di poeti, importante non solo per l’Afghanistan, ma per tutto il Medio Oriente. Stiamo lavorando duramente per coinvolgere i cittadini, specie i giovani e gli esperti, nelle nostre attività». Sostiene di avere risorse e capacità per gestire l’immenso patrimonio storico-architettonico dell’area. Invita gli italiani a visitare la città «in tutta sicurezza». L’occupazione è acqua passata: «Le truppe italiane sono state qui, sotto il mandato Nato, sostenendo il governo illegittimo di Kabul. Ora il governo afghano rappresenta veramente il popolo. Con l’Italia siamo pronti a nuove relazioni, negli ambiti della cultura, dell’aiuto umanitario, nella ricostruzione, non nell’ambito militare. Sarei contento di vedere turisti e investitori italiani».
Mancanza di libertà, censura, repressione da parte dell’Emirato? «Prima c’era insicurezza e discriminazione amministrativa. Oggi non più. E c’è la libertà, dentro una cornice di rispetto per l’interesse nazionale e per l’Islam, che è una religione di libertà. La libertà d’espressione e di critica va bene, se non contrasta l’Islam». Quanto a Khaled Qaderi, «è solo una questione personale, nulla di più», ribadisce il clerico dalla lunga barba nera.

«HO PAURA, sempre di più. Temo per la mia vita e ho pensato di lasciare il lavoro, negli ultimi mesi. Ma come farei a campare?». Ahmed – nome di fantasia – è un giornalista con una lunga esperienza. È preoccupato e frustrato: «I media sono solo di facciata. Non ci è più permesso fare il nostro lavoro». Molti giornalisti e giornaliste hanno cambiato occupazione, qualcuno è andato all’estero, «metà delle redazioni hanno chiuso». Chi rimane, fa i conti con la branca provinciale del ministero per la Prevenzione del Vizio e la promozione della virtù: «Mi chiamano tutti i giorni. Non gli sta bene neanche la musichetta che introduce le pubblicità, non parliamo dei programmi di informazione, tutti chiusi. Qualche collega è stato picchiato, ma se ci lamentiamo al dipartimento per l’Informazione ci dicono di andarcene, che altrimenti arriva l’intelligence ed è peggio». Il controllo è capillare: «Anche i commenti sui social sono monitorati». Chi solleva critiche, obiezioni, «viene bollato come agente straniero». Qualcuno – «ma ormai anche sapere quanti è difficile» – finisce in prigione. Khaled Qaderi «ci è finito per avere condiviso su Facebook un post critico sui Talebani, solo per questo». Cercare la famiglia, provare a sentire la loro versione, è sconsigliato: «Ti metteresti nei guai». È grazie a una delle sorelle, attualmente in Iran, che la vicenda è stata sollevata e il caso finito in un dossier di Reporter senza frontiere.

«TU SEI UN GIORNALISTA onesto, ma tanti non lo sono. Hanno fatto propaganda contro l’Emirato. Per questo la nostra guida, l’Amir al-Mumineen, ci ha detto di non permettere più visite nella prigione». Il mullah Mohammad Nabi ha 39 anni, da 15 fa parte dei Talebani. È il direttore della prigione della provincia di Herat. Uomo di stazza, siede su una poltrona con ampi braccioli decorati. Dietro di lui, alti vasi con fiori finti. Intorno, sette tra assistenti, segretari, funzionari. «Ci sono circa 1.100 detenuti maschi, 80 bambini sotto i 18 anni e 150 donne. Al cibo ci pensa la Croce rossa internazionale: è una questione politica». In galera «ci finiscono tutti, che siano nostri mujahedin, militanti dello Stato islamico, ladri, criminali. Se sbagliano pagano, senza differenza». Che in questa prigione ci sia anche un giornalista, che ha pagato per aver esercitato la libertà d’espressione, non è dato sapere. Non risulta.
Al mawlawi Haqqani, a capo del dipartimento dell’Informazione e della Cultura, non risulta vera neanche la notizia che, qui a Herat, ai ristoratori sarebbe stato ordinato di impedire che uomini e donne, anche se della stessa famiglia, mangino insieme. «No, non è vero che è stato proibito. È tutta propaganda, cattiva percezione dei media. Il ministero per la Prevenzione del Vizio ha indicato delle norme da seguire, ma non quel divieto».

QUANDO VISITIAMO alcuni ristoranti intorno al parco Taraqi, uno dei principali della città, i proprietari confermano il divieto, a condizione di non rivelare i loro nomi: «C’è stato un ordine verbale. Sono venuti qui i funzionari del ministero contro il vizio e ci hanno detto che non si poteva più fare. Gli ho spiegato che abbiamo spazi separati, ma niente». Poi, grazie ai media, la retromarcia. «La notizia l’abbiamo data noi per primi, ed è stata ripresa a livello internazionale», ci dice il giornalista anonimo. Per le sue colleghe che lavorano in televisione, dal 21 maggio scatta l’obbligo di coprirsi il volto durate le trasmissioni.