Sono passati cinquant’anni dal Sessantotto, anno mirabilis non solo per l’Italia ma per il mondo intero. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. È stato l’anno in cui le convenzioni hanno stabilito l’entrata in scena di un movimento globale che ha cambiato il corso della Storia, anche se già da un lustro che le cose erano, appunto, «in movimento».

OVVIO CHE LE MEMORIE non siano condivise, che emergano punti di vista diversi se non opposti. E se poi è l’antefatto di un giallo, tutto diventa difficile. Parlare della grande Storia sciorinando vicende personali mettendole al riparo da quanto accadeva fuori le mura di una casa si rischia molto di restituire immagini sbiadite e una successione disordinata di luoghi comuni che compongono la post-verità nella quale l’Italia – e non solo – è piombata, una volta che ha liquidato come aberrazione il Sessantotto.

È LA DERIVA che prende lo scrittore Marco Malvaldi con il romanzo A bocce ferme (Sellerio Editore, pp. 226, euro 14), nuovo capitolo della saga che vede protagonista un simpatico gruppo di vecchietti, un barista mancato ricercatore universitario e una vicequestore.

Teatro delle vicende narrate è Pineta, piccolo paese del litorale pisano, mentre il palcoscenico è il Bar Lume. Ed è con questo nome che i gialli di Malvaldi sono diventati una serie televisiva godibile (mandata in onda da Sky) per la presenza di bravissimi attori.

Questa volta tutto inizia con la lettura di un testamento, dove il defunto annuncia l’uccisione nel 1968 del suo padre adottivo, boss di una fabbrica farmaceutica. La memoria di quegli anni è costituita dai ricordi e racconti del gruppo di pensionati. E qui il senso comune si fa sciocchezzaio. Gli studenti di allora erano confusi, criptici, anche se andavano a traviare gli operai delle fabbriche, che avevano rotto gli argini innalzati, secondo il ricordo, dal sindacato. C’erano stati tafferugli, scontri con la polizia, ma niente di che, fino a quando il padrone non era stato preso a fucilate e ucciso. Polizia e opinione pubblica maggioritaria avevano puntato il dito contro un operaio, divenuto avanguardia di lotta. Ipotesi caduta nel vuoto per l’alibi fornito, anche se la «gente» aveva escluso l’operaio, messo ai margini del vivere civile al punto che un gruppo di fascistelli l’aveva aggredito, prendendo a bastonate anche sua figlia, uccidendola.

INSOMMA, il solito schemino da opposti estremismi riproposto cinquant’anni dopo. E anche se non ha retto alla prova della grande Storia, torna utile per dare ritmo a una rievocazione del Sessantotto che rimane sempre a «bocce ferme». Meglio dunque privilegiare il giallo, che come i precedenti di Malvaldi è un pretesto per narrare una vita di provincia turbata dai soldi, il sesso e dal desiderio di esercitare potere. C’è da dire che su questo crinale, Malvaldi riesce ad intrattenere il lettore. Tutto è soffuso, lieve, come un crodino, un succo di frutta o un estratto di frutta e verdure che il Bar Lume dispensa tra una battuta da vernacoliere e l’altra.