Lo scorso anno è stato il cinquantenario del ’68, ampiamente ricordato e anche «pasticciato» con il condizionamento dell’oggi, e dei processi che quell’anno fatidico ha innescato, magari rimasti inconclusi. Un progetto teatrale, nato un anno fa ma giunto ora a compimento, cerca di approfondire l’aspetto «umano» oltre che politico di quell’anno fatale. Un progetto europeo quanto a impostazione e finanziamenti, che va a scavare nelle esistenze e nelle reazioni più intime, grazie al territorio in cui la ricerca si è mossa: quello della privata scrittura, sempre in bilico tra emozione, memoria e i loro contorni. Attraverso insomma quanto è rimasto appuntato nei diari e nelle scritture che quegli eventi hanno causato, motivato, acceso.

ATTORNO al capofila Teatro di Anghiari, larga è la partnership europea (Portogallo, Francia Croazia), e privilegiato è l’interlocutore naturale, ovvero il Fondo dei diari di Pieve Santo Stefano. Non solo per motivi geografico-terrritoriali, nella comune appartenenza alla Valtiberina, ma perché da anni Anghiari si è votata a città dell’autobiografia, quasi in gemellaggio con il premio diaristico fondato a Pieve da Saverio Tutino.

Quello che è stato mostrato nei giorni scorsi nella città della Battaglia, non è solo uno spettacolo ricco di linguaggi diversi e con risultati di alta ed avanzata sperimentazione. Butterflies on Flowers. Diari, parole e musiche dall’Europa del ‘68 è davvero un’esperienza per chi quell’anno ha avuto modo di vivere, e una lezione assai istruttiva per chi è venuto dopo. In quelle scritture privatissime, di persone che hanno militato in prima persona, o si son trovate a condividere, da spettatori o interlocutori, quella successione di fatti e di pensiero che cambiò il mondo, c’è una tale ricchezza di umanità, che varrebbe la pena di ascoltarli, anche se non fossero veri.

Con l’espediente drammaturgico di una trasmissione radio sull’argomento (condotta da Matteo Caccia), davvero come «farfalle sui fiori» scorrono quei ricordi, dubbi, sovrapposizioni, canzoni e musiche che segnarono quel tempo per tutti, sessantottini e non, da Parigi a Roma, da Berkeley a Praga. E perfino a Lisbona, dove si aprivano le prime crepe nella tirannia di Salazar, destinate a farsi storia dopo qualche anno, tra i garofani. Con un bel legame che si va a costituire tra quei fiori lusitani e quello altrettanto rosso che Ninetto Davoli porta a spasso per Roma per l’occhio di Pasolini. Anche le canzoni evocate danno un brivido vero, a sentirle oggi nel loro storico contesto: dal Sam Cook di A change is gonna come, alla Revolution dei Beatles, agli Animals a Moustaki, e perfino la «scandalosa» Je t’aime moi non plus della coppia Gainsbourg/Birkin. La rivoluzione si sognava a tutto campo (e forse anche camp…), come del resto mostra lo spettacolo: in diverse lingue e con diversi linguaggi, un’ipotesi forte di rappresentazione del futuro, dove la famosa etichetta di Lehmann sulla «postdrammaturgia» scopre un suo senso mordente e insperato.

AFFASCINANTE e aggressivo il contenuto, e senza limite la generosità degli interpreti: le due attrici Isabel Mões e Francesca Ritrovato, musiche dal vivo di Helena Ruegg al bandoneon, Quique Sinesi alla chitarra, Saverio Zacchei al trombone, la direzione tecnica di Stefan Schweitzer, la videografica e i disegni di Gabriele Bianchini. Tutto coordinato e padroneggiato dalla regia (ma non solo) di Andrea Merendelli, che con Nicola Maranesi del Fondo diaristico di Pieve ne ha anche costruito e articolato il testo.