Il Festival è finito, sulla Croisette e nelle strade dello shopping i festivalieri che avevano iniziato a impacchettare le valigie già qualche giorno fa hanno lasciato il passo alla folla vacanziera più numerosa del solito complice un lungo ponte in Francia e l’estate esplosa al suo massimo fuori stagione.
Che edizione è stata questa 75a, l’ultima con la presidenza di Pierre Lescure al cui posto è stata nominata Iris Knobloch già alla guida di WarnerMedia Francia, e che si installerà il prossimo luglio? Cosa ci ha raccontato sul cinema e sul suo stato? Che c’è una sofferenza, la stessa espressa dai film visti in competizione questi giorni i quali in più casi hanno «deluso»le promesse annunciate dalla selezione, quasi che anche gli autori inventori in passato di forme siano rimasti impigliati nel trauma della crisi mentre i più giovani sembrano adagiarsi nel conforto delle buone intenzioni – ne è un esempio l’ultimo film in concorso, Un petit frère di Lèonor Serraille.

Ma la cosa peggiore è la Palma al cinismo ammiccante di Ruben Ostlund

E SE LE COSE non vanno bene, le piattaforme sono divenute il referente principe, le sale annaspano e con esse quel cinema d’autore e indipendente che almeno in Francia aveva ancora uno suo spazio – invece, come testimoniato in diversi articoli apparsi questi giorni sui giornali francesi persino qui fatica – l’imperativo è di ritrovare un mercato, di recuperare il pubblico perduto, di salvare il possibile: ma come? La «realtà» sembra offrire la (giusta?) risposta: si parla del mondo di oggi con storie e scelte di regia che troppo spesso spiegano al dettaglio evitando ellissi formali, spiazzamenti, così che lo spettatore possa avere le sue coordinate ben chiare – un po’ come nel supermercato seriale. I «grandi temi» – con la giusta attenzione all’«aria del tempo» – sono la materia privilegiata per una realtà di linee nette, convinzioni ferree e commozione assicurata di cui sfugge la profondità ma poco importa. Sarà per questo che persino un regista come Kore-eda così magistrale nel maneggiare le emozioni si è lasciato prendere dal sentimentalismo? O che una regista come Claire Denis si è perduta tra i suoi (ex)-fantasmi)? Questa realtà «esplicita» (e anche un po’ consolatoria) va dall’Egitto di Tarik Saleh (Boy from Heaven) all’Iran di Seed Roustayi (Leila’s Brothers) fino al teorema sociale – ma in piano sequenza – di Mungiu (RMN) e alla lacrima consensuale di Lukas Dhont (Close). Ci sono state – e per fortuna – le eccezioni, chi ci dice che si può parlare della contemporaneità sperimentando, e predilige lasciare aperte le piste anche a chi guarda – come accade nel magnifico Pacifiction di Albert Serra, sussulto della selezione, nel mondo visto dall’asino di Skolimowski (Eo) , nella riflessione su arte e vita di Kelly Reichardt (Showing Up), nel vitalissimo Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi.

LA GIURIA del presidente Vincent Lindon – 4 attrici (Jasmine Trinca che ha però debuttato alla regia con Marcel!; Noomi Rapace; Deepika Padukone;Rebecca Hall) e 4 registi (Jeff Nichols, Asghar Farhadi, Ladj Ly, Joachim Trier) – si è allineata producendo un palmarès tra i peggiori possibili, con molti ex-aequo forse in nome di una malintesa «pluralità »- Eo insieme a Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermermersch, un film inzeppato di cliché. E se per il premio del 75° ha puntato sulla coppia dei fratelli Dardenne, registi lanciati da Cannes con Rosetta, che in Tori e Lokita mantengono la semplicità efficace del loro sguardo sul reale, si è rivolta al thriller di Park Chan-wook, Decision to leave, per il premio della giuria, per unire nel Gran premio con un altro ex-aequo l’annunciato Close e Stars at Noon di Claire Denis – davvero immeritato. Ma la cosa peggiore è la Palma al cinismo ammiccante di Ruben Ostlund, la seconda dopo The Square: Triangle of Sadness è una farsa compiaciuta mascherata da realismo sociale sul capitalismo che serve per esibire l’ego del suo autore. Un cinema perfettamente sintonizzato alla superficialità che dice di fustigare.