Come spesso accade al festival di Cannes, il film di apertura dà il «la» a tutta la programmazione. Carax con Annette, ha cantato il mondo dello spettacolo. Verhoeven con Benedetta lo ha celebrato innalzandolo come un’estasi di gioia sensuale. La storia ispirata alla vita vera di una monaca benedettina vissuta nell’Italia medievale e accusata di atti «bestiali» (ovvero omossessuali) diventa nella messinscena del regista olandese (ispirata al libro della storica americana Judith C. Brown, Immodest Acts) una costante progressione di ogni tipo di eccesso.

NELL’ARTE dell’enormità, Verhoeven è senza rivali. Domina completamente delle sequenze che toccate da altre mani risulterebbero impossibili o ridicole. Il suo film è tutto condotto danzando sul limite tra il grande film drammatico e il più truce film di genere. Siamo costantemente davanti al baratro verso i film di serie B degli anni settanta, in cui l’ambientazione medievale giustificava l’incontro tra l’erotico e l’horror.
Ci si può chiedere come mai Benedetta, che è tutto ambientato in Italia, sia parlato in francese. E a parte il fatto che la produzione è francese, la sola ragione estetica è altrettanto stupida che la più stupida delle battute che la lingua francese consente: perché è l’unico idioma in cui «saint» e «sein», santo e seno, suonano praticamente identici. Verhoeven resta così fedele alla sfrontatezza erotica dei suoi primi film, come Spetter (che vuol dire alla lettera «schizzi»), sfrontatezza che per lui è una cosa molto seria e di cui non si pente mai. Così come lo è per il personaggio di Benedetta (affidato a Virginie Efira), una donna che non riesce a concedere a nessuno, nemmeno alla persona a lei più intima, che ci sia una contraddizione tra santo e seno. E tutto lo sforzo del film, più che nel far capire il personaggio di Benedetta o a svelarne le intenzioni, tende a mettere a nudo, per così dire, questa buffa relazione santo/seno, prendendola tremendamente sul serio. È con queste armi a priori spuntate e volgari che Verhoeven dà l’assalto ad ogni moralismo, prendendosi gioco della chiesa, e ripagandone l’ipocrisia con stupefacente efficacia.
Predestinata alla santità sin da bambina – il «miracolo» può essere anche una cacca di piccione nell’occhio di un «bravo» – Benedetta quando cresce ha una sua relazione personalissima con Gesù, il suo sposo, che le appare in scene da b-movie, tra martirio e erotismo (confine sottilissimo lo sappiamo). È una monaca modello, ma l’arrivo di una ragazza perduta come le pecorelle di Gesù fa scattare qualcosa di ignoto: passione, desiderio, piacere, potere?

GLI ANTAGONISTI di Benedetta sono una suora, la madre superiora (Charlotte Rampling), il nunzio di Firenze. Tutti hanno in comune il fatto di non credere fino in fondo al proprio stesso gioco. Il gioco è ovviamente lo spettacolo. Cos’è la chiesa, infatti, se non un grande, immenso, gigantesco spettacolo? Non è la chiesa stessa a mostrare in continuazione corpi nudi, dilaniati e al tempo stesso gaudenti ? La chiesa è un monumentale spettacolo sado-maso che dura da millenni di potere, patriarcato, finti peccati, soldi – anche chiudere le figlie in convento ha un prezzo. Ma è uno spettacolo a cui i suoi stessi registi non credono fino in fondo.

BENEDETTA, al contrario, è assolutamente persuasa che in quello spettacolo bisogna credere senza alcun dubbio. Che in esso c’è la salvezza. E che è peccatore al contrario chi cerca di interromperne la progressione verso l’estremo sempre piu eccessivo. Una morale che è la stessa di tutto il cinema di Verhoeven: tutto deve essere visto, mostrato, in pubblica piazza. E se si è mostrato troppo, l’unica cura è mostrare ancora di più,far ardere il fuoco eterno mentre intorno dilaga la peste.
Con Benedetta pensiamo spesso ad un film geniale del periodo hollywoodiano, eppure male accolto dal pubblico e dalla critica: Showgirl. In entrambi, lo stesso problema centrale: come fare un film sulla fede, quando si è un cineasta che non intrattiene nessun rapporto cinematografico con l’invisibile? In tutto il film Verhoeven con molta ironia accumula le prove della simulazione di Benedetta. Ogni volta che appare una stigmata o una piaga, c’è un pezzo di vetro o un coccio. La novizia è una pecorella perduta, «selvatica» e sensuale a cui deve resistere. La vergine può diventare un pene. Eppure non è un po’ la stessa cosa la sequela di miracoli, martiri, sante sacrificate nell’ascesi, corpi martoriati, santi redenti? Ogni immagine è il suo contrario, peccato e redenzione, salvezza e inferno. Una bugia, una recita come quella che le novizie fanno al convento – tra angioletti e barbe finte. Ma proprio quest’accumulazione di prove prova solo che non si riesce mai a sapere nulla. Si può solo credere.