«Vi chiedo perdono», anche «a nome dei vostri persecutori». «Oggi la presenza di Dio si chiama anche Rohingya». Nel penultimo giorno della sua visita in Asia, ieri a Dacca papa Francesco ha alzato l’asticella, dopo la prudenza diplomatica usata nei giorni scorsi in Myanmar. Lì aveva evitato di usare il termine che designa la minoranza musulmana dello stato birmano del Rakhine (ex Arakan).

 

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Qui invece lo ha adoperato, dopo aver incontrato nel giardino dell’Arcivescovado di Dacca, durante l’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace, una delegazione di Rohingya. Gli hanno raccontato le loro storie. Storie di drammatica incertezza e sofferenze. «Sofferenze enormi», ha dichiarato papa Francesco in un discorso fuori protocollo, che trovano «spazio nel nostro cuore».

NEL PAPA, I ROHINGYA sperano di trovare una sponda per risolvere il drammatico stallo in cui si trovano: costretti a fuggire dal Rakhine, rifugiati sull’altro lato del confine, sono stretti in una morsa: vorrebbero tornare nel proprio Paese, ma sanno che le garanzie per un futuro senza persecuzioni non possono arrivare dal regime birmano. Allo stesso tempo, percepiscono la crescente insofferenza del governo bangladese, che li ha accolti con generosità – come ha ricordato Bergoglio a Dacca, invitando la comunità internazionale ad aiutare il governo della premier Skeikh Hasina –, ma che spera di liberarsene presto. Lo dimostra l’accordo firmato alcuni giorni fa. Un accordo vago, che prevede il progressivo rimpatrio dei Rohingya. Sulla carta dovrebbe essere gestito da una commissione congiunta bangladese-birmana, ma l’ultima parola è affidata proprio ai militari birmani, gli autori della pulizia etnica dei Rohingya.

Nella storia della minoranza musulmana birmana che cerca in Bergoglio un aiuto diplomatico c’è un’altra contraddizione. La si scopre visitando i campi allestiti nel distretto di Cox Bazar, dove a partire dallo scorso agosto hanno trovato rifugio almeno 620 mila Rohingya, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

COX BAXAR è la principale meta turistica di questo Paese da 170 milioni di abitanti. Sulla lunga spiaggia affacciata sul Golfo di Bengala, al tramonto i turisti locali scattano selfie su selfie, vera passione nazionale, per poi affollare i ristorantini di pesce e i negozietti di souvenir a prezzo gonfiato. «Sei qui per i Rohingya?», chiedono tutti. «Brutta storia», ripetono affondando le mani nel riso.

La città informale dei Rohingya, a pochi chilometri da qui, è un mondo a parte. Vera antitesi della Cox Baxar turistica. Lo si raggiunge con un viaggio di circa un’ora, passando attraverso campi coltivati e villaggi, con contadini piegati sul raccolto e bambine sorridenti con la divisa scolastica. Quando la strada raggiunge la cittadina di Ukhiya, cresce il fermento. Qui fino a poco tempo fa vivevano tremila persone. Oggi i mercati sono affollati. Con l’arrivo dei Rohingya, si è sviluppato un importante mercato informale, che risponde alle esigenze dell’imponente macchina umanitaria. I campi per i rifugiati sono divisi per settori, l’unico modo per le organizzazioni internazionali e bangladesi per orientarsi in un reticolo di stradine che salgono e scendono per collinette disboscate, occupate da migliaia e migliaia di tende tirate su con plastica e legna. Fuori dalle tende, uomini e donne trasportano fascine di legna, assi di bambù, razioni di cibo. Qua e là, qualche negozietto con pochi prodotti. Gestito dai bangladesi della zona, oppure dagli stessi Rohingya.

Proprio da qui giovedì pomeriggio è partita la delegazione che ieri ha incontrato papa Bergoglio. È stato spiegato loro il senso dell’incontro. E chi fosse Jose Maria Bergoglio. Perché il papa venuto da Roma che si fa protettore dei Rohingya, qui non lo conoscono.

 

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Fedeli bangladesi in attesa della messa celebrata da Bergoglio a Dacca (Reuters)

 

«FRANCESCO CHI?», risponde Rahamatullah, un uomo sulla trentina, arrivato qui con la moglie e i quattro figli, quando gli chiediamo cosa si aspetti dalla visita di Bergoglio. Lo incontriamo nella clinica mobile gestita dalla Croce rossa italiana e dalla Mezzaluna Rossa bangladese nella cosiddetta extension zone del campo di Kutupalong, accessibile grazie a una nuova strada scavata nelle colline dall’esercito bangladese. «Qui da un giorno all’altro vengono tirati su nuovi rifugi», spiega Riccardo Bagattin, field officer della Croce Rossa a Cox Bazar, indicando l’orizzonte. All’interno della clinica, gestita insieme alla Mezzaluna bangladese, la dottoressa Erika Dellavalle e l’infermiere Fabio Antonucci curano i pazienti, soprattutto donne e bambini.

SIAMO IN UNA ZONA «ESTESA», un nuovo ampio appezzamento destinato alle tende: a dispetto dell’accordo raggiunto con il Myanmar, le famiglie Rohingya continuano ad attraversare il confine, come verifichiamo visitando la no man’s land. Oltrepassato il confine birmano, arrivati nella zona non raggiungibile dai militari birmani, migliaia di rifugiati aspettano che uomini dell’esercito bangladese diano loro il via libera per raggiungere il Transit Center dell’Unhcr, l’organizzazione dell’Onu per i rifugiati. «Il flusso è diminuito, ma non si è arrestato», spiega al manifesto Olivia Headon dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, per la quale «vanno pensate politiche sul lungo-termine». Perché siamo di fronte a una delle più gravi crisi umanitarie della storia recente.

L’IMPEGNO DI PAPA BERGOGLIO, per quanto importante, non sarà risolutivo. I Rohingya lo conoscono poco, ma sperano che possa comunque aiutarli. «Se è una persona potente, speriamo che ci possa aiutare. Qui siamo al sicuro, ma non possiamo vivere a lungo così», dice Jonayat Nur Baser, anche lui costretto a lasciare la Birmania. È qui da tre mesi. In attesa di sapere cosa sarà del suo futuro.