Un tempo la chiamavano la «Ruhr di Francia», per mezzo secolo capitale dell’industria siderurgica. Nella Lorena che Dominique Manotti racconta in Vite bruciate (Sellerio, pp. 296, euro14) di quel passato fatto anche di lotte sociali e di una comunità solidale resta però ben poco. A metà degli anni Novanta, quando si svolge il romanzo, le vecchie imprese si sono ormai trasformate in «fabbriche-bidone», tirate su solo per incassare i finanziamenti pubblici e chiudere subito dopo, mentre i colossi industriali asiatici conducono una inesorabile campagna acquisti dei «marchi» locali. Di fronte a tutto questo, nessuno, a cominciare dai giovani operai che tentano comunque una qualche forma di resistenza, riesce a vedere come le radicali trasformazioni produttive in atto celino in realtà anche affari loschi e una rete di interessi inconfessabili.
Già sindacalista, militante politica cresciuta nel Sessantotto parigino e docente di Storia economica, Dominique Manotti analizza ancora una volta le fasi di passaggio della storia recente per restituire voce e dignità ai protagonisti invisibili della società francese. Un percorso che ne ha fatto una delle protagoniste del noir transalpino. La scrittrice interverrà domani alle 15 a Più libri più liberi (Sala Sirio).

Ambientato negli anni Novanta in una regione industriale dove gli effetti della globalizzazione si annunciano già con la chiusura e la delocalizzazione di molte fabbriche, il romanzo racconta il volto criminale dell’economia finanziaria. Quasi un’anticipazione della realtà odierna…
Almeno in parte. Un tempo la Lorena era una delle zone più industrializzate di Francia, una roccaforte del movimento operaio. Ma quando, all’inizio degli anni Ottanta la siderurgia ha iniziato ad essere smantellata pezzo dopo pezzo, l’intera regione si è trasformata in una sorta di deserto sociale. Durante le ricerche che hanno preceduto la stesura del libro ho parlato con molti operai ed ex operai della zona e mi sono resa conto che di quella storia non rimaneva quasi più nulla. Come dice uno dei personaggi del libro, «noi giovani non sappiamo fare uno sciopero, e i vecchi non ci sono più per insegnarcelo». Così, pian piano, queste aziende si sono trasformate in quelle che in Francia vengono chiamate «usine tournevis»: non più delle fabbriche che servono a produrre qualcosa, se non di bassissima qualità, e dove si investono capitali veri, bensì quasi delle «scatole vuote» che servono solo per drenare sovvenzioni pubbliche, sempre più spesso dall’Unione europea e per essere chiuse subito dopo.

Anche in questo caso emerge il tema che sembra caratterizzare gran parte della sua opera, vale a dire le relazioni pericolose e potenzialmente criminali tra il potere e il denaro.
È paradossale, ma malgrado ci troviamo in un’epoca largamente dominata dalle idee liberali, le imprese e i grandi centri finanziari vivono solo grazie ai loro legami con il potere politico, anche quando si tratta un potere effimero come è quello della Ue. A fare da sfondo a questo romanzo c’è una vicenda reale: il tentativo di acquisizione dell’industria elettronica Thompson da parte dei coreani di Daewoo e l’intreccio di quella operazione con la politica dell’epoca. Il tema è pero più generale. Da un lato ci sono gli interessi della finanza che controlla i diversi «marchi» e cerca di accaparrarsi fondi e risorse solo per spostarli poi altrove o utilizzarli in operazioni di borsa, dall’altro ciò che resta di un mondo del lavoro che lega quelle fabbriche e quei luoghi produttivi alla propria sopravvivenza. In Lorena, le fabbriche aperte negli anni Novanta, e che erano state presentate come una risposta alla crisi della siderurgia, sono fallite una dopo l’altra, una volta che i loro dirigenti avevano incassato i finanziamenti pubblici di Parigi e Bruxelles. E i lavoratori si sono ritrovati ancora più soli e disperati di prima.

Sul piano sociale, almeno in parte, il risultato di un tale clima sembra essere quel senso di malessere e di abbandono, sia economico che relativo alla rappresentanza dei propri interessi e bisogni, che sta alimentando la mobilitazione dei «gilet gialli». Cosa pensa di quello che sta succedendo in Francia?
Fin dall’inizio ho cercato di osservare con molta attenzione quanto accade. Così, ad esempio, se è vero che in queste mobilitazioni sono emersi talvolta anche degli accenti razzisti, chi come me ha lavorato a lungo nel sindacato, sa bene che si tratta di reazioni che ci sono sempre state in seno alla classe operaia. Abbiamo sempre dovuto batterci contro questo tipo di atteggiamenti anche nel nostro stesso campo. Perciò, per valutare questo movimento si deve guardare ad altro. E da questo punto di vista credo vi sia qualcosa di estremamente interessante nei gilet gialli: vale a dire un fortissimo desiderio di socializzazione, di creare nuovi legami sociali, che emerge tra le persone che organizzano ormai da settimane dei blocchi stradali un po’ ovunque nel paese. Qualcosa sta prendendo corpo tra chi partecipa ai picchetti, per il tramite della lotta nella quale si impegna accanto a persone che spesso non aveva mai incontrato in precedenza, senza aver discusso o aver avuto nulla in comune fino a quel momento. E in questi luoghi si è invece cominciato a discutere, a riflettere, a prendere delle decisioni collettive. Ciò che manca ai «gilet gialli» è forse un respiro politico più articolato, ma da questo punto di vista stiamo a vedere cosa accadrà. Anche perché l’esperienza mi insegna che è nelle lotte che anche la coscienza degli individui si forma ed evolve, non nei momenti di calma, quando non accade nulla. E credo che anche in questo caso la mentalità dei partecipanti alla mobilitazione evolverà. Potremmo essere di fronte ad un punto di svolta per questo movimento, ad un allargamento e ad una crescita delle proteste. Un primo segnale positivo è del resto già arrivato dal fatto che gruppi di studenti delle superiori come dell’università si sono aggiunti in diverse località a chi blocca le strade già da qualche settimana o hanno lanciato un segnale ai «gilet gialli», proponendo un allargamento delle rivendicazioni proposte da questi ultimi, con altri temi e richieste che riguardano le nuove generazioni.

Le trasformazioni della società francese sono da sempre al centro dei suoi romanzi. Quando, a metà degli anni Novanta, ha lasciato l’attività sindacale e l’insegnamento per dedicarsi completamente alla narrativa lo ha fatto anche come reazione al clima politico e sociale del paese?
È sempre difficile guardare al proprio lavoro con lucidità, ma credo di poter dire di essere stata spinta inizialmente verso la scrittura da diversi cambianti che stavano accadendo intorno a me, nella società francese. Così, dal 1995, l’anno in cui è uscito il mio primo romanzo, ho cercato di comprendere cosa stava accadendo. In realtà, all’epoca si trattava soprattutto di tirare le fila di quanto era accaduto esattamente dieci anni prima, durante la presidenza di François Mitterand. Il nostro celebre presidente «socialista» ha infatti incarnato la versione francese di Reagan e Thatcher, riuscendo a far passare una drammatica trasformazione di fondo della realtà sociale del paese, attraverso quella che oggi si chiamerebbe un’abile «narrazione». I miei concittadini, come del resto gli italiani, hanno sempre amato molto tutto ciò, concedendo un grande credito politico a chi sapeva «raccontargliela meglio». Durante les années Mitterrand, più o meno un quindicennio che si è concluso a metà degli anni Novanta, si è operato un cambiamento profondo: buona parte della la gauche che si è convertita al culto del denaro e della ricchezza. Dal mio punto di vista a questa stagione è seguito una sorta di lento disfacimento del paese, che non ha perso solo la propria struttura economica e sociale, ma anche la propria cultura, le proprie forze vive. E quanto è venuto dopo, fino ad oggi, è stato per molti versi solo una conseguenza. La sensazione è quella di un paese che sprofonda si disfa ogni giorno di più. Di fronte a questa situazione disperante, per chi come come aveva creduto e partecipato al tentativo di cambiare invece in meglio la società, non restava che guardare altrove. Così sostenuta dalle mie letture, a partire dai romanzi di James Ellroy, ho capito che potevo continuare ad indagare su quanto stava avvenendo, ma con uno strumento nuovo, quello della scrittura, del noir come nuova forma di inchiesta sociale.

Perché proprio il noir?
Fin dall’inizio ho capito che il poliziesco mi offriva gli strumenti narrativi più adeguati a raccontare ciò che mi interessava. Avrei potuto utilizzare il crimine come una sorta di scalpello per grattare via la superficie e mettere a nudo la società. Credo che la verità più profonda di un individuo, e allo stesso modo il vero volto di un sistema sociale, si rivelino soprattutto nei momenti di crisi. E il crimine, da questo punto di vista, rappresenta una manifestazione tra le più forti e evidenti di tali fasi di crisi. Inoltre, se c’è una cosa che ho appreso nei tanti anni passati nel sindacato, è l’importanza di quello che definirei come «il linguaggio plurale». In fondo gli individui possono contare davvero solo in gruppo, se vivono, e come lo fanno, in società. Ho sempre guardato all’interazione che le persone riescono a costruire, al modo in cui si «mettono insieme». E questo è diventato anche il modo attraverso il quale nei miei romanzi si cerca se non la verità, perlomeno di capire che cosa sta succedendo.