Negli ultimi due mesi, seguendo le cronache dal Medio oriente, mi sono trovato a pensare a un saggio che Ignazio Silone scrisse nel ’54 per alcune conferenze promosse dall’Associazione per la libertà della cultura che avrebbe tenuto in diverse città italiane.

Oggi si parla di rado dello scrittore abruzzese, uno dei giganti della letteratura civile italiana del Ventesimo secolo. Eppure, Silone è ancora un nostro contemporaneo, non solo nel senso (banalmente) cronologico, ma perché i dilemmi morali e politici con cui egli ha dovuto fare i conti nel corso della sua vita – tra la rivoluzione bolscevica e la guerra fredda – sono ancora salienti per le nostre vite.

Nel testo di quella conferenza, scritta in piena guerra fredda, Silone denuncia il nichilismo che, a suo avviso, ha preso il sopravvento nelle società occidentali: «Dalle classi alte il nichilismo si è propagato su tutta la superficie sociale. L’epidemia non ha risparmiato i quartieri popolari. Universale è oggi il culto nichilista della forza e del successo. Ed è nichilista questa generale virtù di identificare la Storia con i vittoriosi, l’ignobile viltà che porta tanti intellettuali verso il comunismo o verso McCarthy».

Silone rifiuta l’idea che i deboli, i morti, le vittime, abbiano sempre torto: «Mazzini ebbe torto? Trockij ha avuto torto solo perché è stato battuto? Gobetti, Matteotti avevano torto? E Gramsci non cominciò ad avere ragione che dall’aprile del 1945? Non l’avrà più se diminuirà la forza del suo partito? E la paura della bomba all’idrogeno è la paura di una ragione superiore, di una ragione più convincente di altre?».

A colpire Silone non è tanto che a esaltare la forza e il successo come valori ultimi che guidano l’azione umana e l’organizzazione della società siano gli esponenti dei ceti dominanti, o gli intellettuali di una certa destra. Questo era, ed è, normale. A turbarlo è invece il fatto che il nichilismo si sia fatto strada tra chi aveva creduto ai “miti politico-sociali” del Diciannovesimo secolo e che, dopo due guerre mondiali, ha perso la bussola, e vive una condizione di incertezza e di ambiguità morale che non riesce a risolvere. Anche su costoro, che sono stati «compagni» per Silone, ha fatto presa l’idea che il bene, il giusto, o il vero coincidano con il proprio interesse personale. Sono questi ex compagni a spingere lo scrittore abruzzese a porsi il problema di una disposizione d’animo che si basa sul presupposto che «dietro a tutte le fedi e dottrine in fondo non ci sia nulla di reale, e che pertanto, in definitiva, solo importi e conti il successo. Nichilista è il sacrificarsi per una causa alla quale non si crede, facendo finta di crederci. Nichilista è l’esaltazione del coraggio e dell’eroismo, indipendentemente dalla causa a cui servono, equiparando così il sicario al martire».

A quasi settanta anni dalla pubblicazione del testo della conferenza, mi pare che il tema di fondo che Silone poneva sia ancora attuale, e ritorni con particolare forza in questi giorni: «Ciò che definì la nostra rivolta fu la scelta dei compagni. Fuori dalla chiesa del nostro borgo c’erano i cafoni. Non era la loro psicologia che ci attirava, ma la loro condizione».

Ecco, questo mi pare sia il punto anche oggi, che i confini del nostro borgo si sono estesi fino a abbracciare il mondo, sebbene la nostra capacità di cambiarlo sia per molti versi rimasta legata al luogo in cui ci troviamo. Chi sono i nostri compagni? Come li sceglieremo? Per quanto mi riguarda, sono convinto che non siano più quelli di un tempo. Non si può far passare il sicario per martire, e questo vale per tutti i sicari. Non sono la forza o il successo a giustificare l’azione di un uomo – o le politiche di un governo – ma il rispetto della giustizia, la cura del bene (o meglio dei beni, come ci ha insegnato Aristotele, e ci ricordano Martha Nussbaum, Amartya Sen e John Rawls) e l’amore per la verità. Tutto ciò ha a che fare con cosa sia oggi la sinistra, e chi può rappresentarla. Nel 1954, Silone li chiamava «i profughi dell’Internazionale». Oggi sono probabilmente gli orfani del comunismo e i delusi del riformismo, i fedeli che credono in un dio di amore e non di battaglie, e gli atei che non si rassegnano al nichilismo.

Per chi condivide questi pensieri, o che si trova in uno stato d’animo simile a quello che ho cercato di descrivere, queste ultime settimane hanno avuto il valore di un test sul piano morale. Se accettiamo decine di migliaia di morti (molti dei quali sono bambine e bambini) senza muovere un dito o senza aprire bocca per tentare di arrestare la strage, avremo superato un punto di non ritorno.

Su questo, sulla disponibilità a dire «no» alla carneficina, si gioca la scelta dei compagni e la costruzione di un futuro più umano e solidale per noi e per i nostri figli.