Come è possibile che l’agroalimentare, il settore a cui va circa il 40% del bilancio comunitario europeo, sia in una sofferenza grande? Esplode un malessere che evidentemente ha radici profonde. Emerge una caduta di rappresentatività delle organizzazioni del mondo agricolo che traggono la loro legittimazione non da chi dovrebbero rappresentare ma dal rapporto sempre più intimo con il governo.

L’elemento di fondo è invece la crisi di un modello di rapporto con la terra e di produzione del cibo. Nonostante la massa di aiuti, esso si regge su un equilibrio esilissimo, oggi messo in discussione da diversi elementi. L’assenza di una via di uscita – che non si vede né delineata né perseguita dalle istituzioni e dalla politica – spinge un sottofondo di disperazione nel quale si mischiano elementi giusti di insofferenza con domande di cambiamento, così come elementi corporativi come la richiesta di proseguire quelle politiche che imprigionano i produttori agricoli in un rapporto malato con la terra.

Un fattore immediato di rottura dell’equilibrio è dato dalle guerre e dagli effetti che stanno producendo a largo raggio e sulle linee di traffico delle merci. L’inflazione e il crescere dei costi dell’esposizione finanziaria in un settore dove i piccoli e i medi protagonisti viaggiano sul filo della precarietà. È ben evidente che tutti questi elementi appaiono non di breve periodo. Ma invece di andare alla loro radice con l’impostazione di una rigorosa politica di pace e di sviluppo comune si va verso la loro esasperazione.

Pesa poi la riduzione delle produzioni o comunque l’incremento dei costi derivante dagli effetti già visibilissimi dei cambiamenti climatici sulla coltivazione della terra. Mostra la corda l’idea di una transizione ecologica che non intacca le ragioni di fondo dell’agricoltura e dell’allevamento intensivo; del complesso dell’agrichimica di cui Bayer-Monsanto e glifosato è emblema; delle filiere produttive globali che attraverso la grande distribuzione premono sui produttori locali togliendo loro spazio e futuro; la diffusione dell’agricoltura di precisione e delle applicazioni che si traducono, in assenza di una azione supportata e critica, in un ulteriore grado di deprivazione e impoverimento del ruolo del produttore della terra.

È questo modello di produzione di cibo che genera oltre un terzo di emissioni climalteranti. Ed è il peso di questo modello che sta sulle spalle del produttore agricolo: soprattutto del piccolo che spesso non trova ragioni sufficienti di reddito e di funzione per andare avanti. Ci sono poi, ma solo alla fine, gli effetti delle prime misure della «transizione ecologica» il cui simbolo è diventato il taglio dei sussidi sui carburanti agricoli.

La politica agricola comunitaria non è riuscita a immaginare e sostenere un’altra agricoltura. Una radicale conversione ecologica si ottiene anche con il taglio dei sussidi al petrolio (a tutti, però ) ma innanzitutto con politiche attive che accompagnino i produttori agricoli, li sostengano in questo passaggio verso una produzione di cibo ricongiunta con la natura. È il dato macroscopico che emerge da questa conflittualità diffusa e confusa: non si dà transizione ecologica senza ancoraggio sociale forte ed esplicito. Non si dà transizione se non diventa conversione e cioè se non emerge, presente già nella realtà di tantissime esperienze, un nuovo e diverso modello produttivo e di rapporti sociali. Incentrato anche su un rapporto equo con l’Africa, oltre la propaganda. La vera risposta è proprio questa. E con essa si sta cimentando in Campania «Rigenera», l’idea di una legge quadro, con iniziativa popolare, per la conversione ecologica della produzione e distribuzione del cibo. Un passo nella direzione giusta.