Una novella corsa all’oro che è una vera e propria discesa negli abissi. Perché rischia di alterare precari equilibri sedimentati in milioni di anni, in nome di una presunta penuria di materie prime critiche per la transizione ecologica e digitale divenuta quanto mai urgente. È il cosiddetto deep sea mining, l’estrattivismo minerario in mare profondo, sulle cui sorti torna a decidere dal 15 luglio in Giamaica l’International Seabed Authority (Isa), l’ente intergovernativo chiamato a regolamentare queste attività nei fondali oceanici. Un round di negoziati che, per la prima volta dopo decenni di discussioni e un parziale stop all’avvio del deep sea mining nel 2023, introduce in agenda la proposta di una Politica generale per la protezione e la conservazione dell’ambiente marino.

MA QUALI SONO GLI INTERESSi in gioco che potrebbero smuovere le acque profonde? Ad attrarre le aziende sono i noduli polimetallici, concrezioni di 5-15 centimetri che si devono alla precipitazione di metalli intorno a un innesco naturale, come un frammento di conchiglia o un dente di squalo, e che giacciono sulla superficie del fondo marino. Le “perle” al loro interno? Manganese, nichel, rame, molibdeno, litio, terre rare negli appetiti dell’industria elettronica, energetica, delle telecomunicazioni, ma anche della difesa, interessata ai metalli “classici” per le munizioni.

PER TIRARLI FUORI, TUTTAVIA, SERVONO cingolati da calare in aree dall’elevata biodiversità, in gran parte ancora ignota e non intaccata da attività antropiche, adattata ad ambienti tanto stabili quanto vulnerabili, con un ruolo chiave nel sequestro del carbonio del pianeta. Un habitat peculiare a cui contribuirebbe proprio la presenza di questi noduli, riparo e superficie di crescita per molte specie, in un luogo altrimenti privo di substrati duri. Rimuoverli, a detta di molti scienziati, potrebbe avere impatti considerevoli: dalla sospensione di sedimento all’inquinamento chimico fino all’immissione di luce e rumore che, come dimostra un nuovo studio di Greenpeace e Università di Exeter, comprometterebbe l’orientamento e la comunicazione di balene e altri cetacei.

IN QUESTA PARTITA CRUCIALE per la salvaguardia degli oceani, l’Italia ha un potenziale ruolo da protagonista: al tavolo che si apre lunedì a Kingston, siede infatti nel gruppo A dell’Isa, accanto a Cina, Giappone e Russia, in una posizione rilevante nel Consiglio che dovrà discutere il “codice minerario” da approvare entro il 2025. Ciononostante, i ministri italiani titolati in materia e la premier Giorgia Meloni esprimono posizioni ambigue e confuse sul deep sea mining, raccolte nell’ultimo report di Greenpeace che fotografa un esecutivo diviso tra sfruttamento e tutela dei fondali, con una scarsa conoscenza del tema.

IL MINISTRO NELLO MUSUMECI (Protezione Civile e Politiche del Mare) si dichiara favorevole alle attività estrattive a patto che sia garantita la tutela dei fondali marini, senza però spiegare come questa potrebbe essere effettivamente assicurata, mentre il ministro Adolfo Urso (Imprese e Made in Italy) afferma che nella legge sulla blue economy ci sarà spazio per tutte le industrie che lavorano con il mare, comprese quelle che si offrono per le estrazioni negli abissi. Se la premier Meloni sostiene che la corsa al mondo subacqueo e alle risorse geologiche dei fondali sia un dominio nuovo nel quale l’Italia intende giocare un ruolo di primo piano, si mostra più cauto il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin che nel Piano del Mare approvato a ottobre 2023 dedica una parte proprio allo sfruttamento delle risorse minerarie sottomarine invocando “un approccio precauzionale basato sul minimo impatto sugli ecosistemi”.

INTANTO, LE AZIENDE FOSSILI GUARDANO all’alto mare come a un possibile piano B per mantenere la logica estrattivista: il settore del gas e petrolio è infatti tra i pochi in Italia a possedere tecnologie, impianti e finanze per avviare le costose operazioni di deep sea mining. C’è poi un altro elemento da considerare: l’impegno più volte ribadito dal governo Meloni per istituire entro il 2024 le Zone Economiche Esclusive (ZEE), una via di mezzo tra le acque territoriali e quelle internazionali, entro le quali il Belpaese potrebbe autorizzare anche l’estrazione mineraria, potenzialmente promossa da industrie italiane e non, su un perimetro molto più esteso rispetto alle previsioni attuali. Tuttavia, le possibilità di trovare grandi depositi minerari nel Mare Nostrum sono piuttosto limitate. Senza contare le conseguenze che le attività estrattive avrebbero in un mare semi-chiuso come il Mediterraneo, già impattato da traffico marittimo, inquinamento da plastica e pesca industriale.

A OGGI, IN OGNI CASO, IL NOSTRO PAESE non si è schierato ufficialmente sul deep sea mining, a differenza di altri 26 Stati che hanno preso una posizione netta chiedendo una pausa precauzionale, una moratoria o, caso unico la Francia, un divieto alle attività estrattive in alto mare. Eppure, delle soluzioni alternative per una transizione sostenibile esistono già. A partire dall’adozione di nuovi e più funzionali criteri di progettazione dei prodotti tecnologici: ancora oggi, il mercato globale è invaso da articoli di bassa qualità e breve durata che implicano un consumo eccessivo di risorse non rinnovabili. A ciò si aggiunge la necessità d’incrementare i tassi di riciclo di metalli e terre rare nei prodotti a fine vita.

QUANTO ALL’ITALIA, PRIMA DI AVALLARE qualsiasi interesse estrattivo, sarebbe auspicabile uno studio di aree nelle mire dell’industria mineraria come i seamounts, montagne sottomarine che rappresentano hotspot di diversità dall’effetto aggregativo per le specie pelagiche, ancora poco esplorate. Attività di ricerca necessarie a comprendere i processi delle risorse che tra queste montagne si celano e gli ecosistemi connessi. Proprio a tale scopo, in questi giorni, Greenpeace Italia è impegnata nella spedizione scientifica “C’è di mezzo il mare” sul Palinuro seamount, deposito idrotermale che ha attratto l’interesse di alcune aziende per il potenziale sfruttamento dei solfuri metallici caratteristici dei vulcani del Sud del Tirreno.

L’AVVIO DELLE ESTRAZIONI RISULTEREBBE, del resto, in netto contrasto con il Trattato globale sugli Oceani adottato solo lo scorso anno dall’Onu e in attesa della ratifica di molti Stati, compresa l’Italia, che ha assunto impegni per il raggiungimento dell’obiettivo 30×30 di protezione dei nostri mari in diverse sedi internazionali. Per questo Greenpeace ha lanciato una petizione, unendosi all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e diverse aziende private, rappresentanti della comunità scientifica, della società civile, dell’industria della pesca e ad altri Paesi nel chiedere una moratoria al deep sea mining: stroncare sul nascere lo sfruttamento di questi giacimenti, fin quando non si avrà un quadro chiaro e misurabile delle sue conseguenze, è di vitale importanza. Per anteporre la garanzia di un’effettiva protezione degli ambienti marini agli interessi di pochi.