Per conoscere i nomi dei candidati del Movimiento al Socialismo alle prossime elezioni – la cui data sarà annunciata entro il 6 gennaio – bisognerà attendere l’assemblea del 19 gennaio a Buenos Aires, a cui prenderanno parte dirigenti del partito e dei diversi settori sociali.

COSÌ HA RESO NOTO Evo Morales al termine della riunione con i leader del Mas svoltasi sempre a Buenos Aires il 29 dicembre, annunciando inoltre per il 22 gennaio, quando si sarebbe dovuto concludere il suo mandato, la convocazione di una manifestazione in Argentina, con la presentazione del suo rapporto di fine gestione. La principale sfida, per il Mas, resta tuttavia quella delle divisioni interne che, negate dai vertici, appaiono però confermate dalla base: non a caso, la riunione del 29 dicembre è stata disertata tanto da settori sociali di El Alto, la roccaforte del Mas, quanto da organizzazioni contadine di La Paz e di Chuquisaca.

Se a El Alto – come ha spiegato la presidente del Senato Eva Copa, già contestata per la sua disponibilità a negoziare con il governo golpista – le organizzazioni hanno deciso di definire «le candidature a partire dalla base, analizzando i profili e cercando un consenso», ancora più esplicito è stato l’ex dirigente della Federación Única de Trabajadores de Pueblos Originarios de Chuquisaca, Román Barrón: «Le cose si risolvono in Bolivia, tra di noi, non da un altro paese».

Segnali di malessere vengono anche dalla Federación Túpak Katari di La Paz, che non sembra disposta ad accettare altro candidato presidenziale che l’ex ministro degli Esteri (dal 2006 al 2017) David Choquehuanca, appoggiato – si legge nella risoluzione del 26 dicembre – in maniera «unanime e non negoziabile».

NON SENZA L’AGGIUNTA di critiche sui «molti errori politici» commessi dai vertici del Mas e dall’«entourage bianco» dell’ex presidente, accompagnate dalla raccomandazione a restituire la parola alle basi «perché discutano, analizzino e decidano la ricostruzione del processo di cambiamento». E mentre il Mas è alle prese, da una parte, con i suoi problemi interni e, dall’altra, con la persecuzione da parte delle forze golpiste (più di 100 i leader arrestati, indagati o costretti all’esilio), il governo dell’autoproclamata Añez, che pure avrebbe dovuto essere «strettamente transitorio», procede in tempi record a garantire il totale riallineamento agli Usa, stabilendo persino il ritorno nel paese della famigerata Usaid (l’Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale), espulsa per la sua intromissione negli affari interni boliviani.

Un riallineamento che ha comportato la riapertura delle relazioni con Israele, l’abbandono dell’Alba, l’annuncio della possibile uscita dall’Unasur (e dalla Celac, la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici) e l’adesione al Gruppo di Lima (la coalizione anti-Maduro).

UN QUADRO COMPLETATO dalla crisi diplomatica con il Messico (colpevole di aver concesso l’asilo, nella sua ambasciata a La Paz, a leader del Mas perseguiti dalla giustizia) e con la Spagna (in seguito alla visita di una sua delegazione alla sede diplomatica messicana), culminata con l’espulsione di diplomatici dei due paesi.

Giunge intanto proprio da uno dei protagonisti del colpo di stato, l’ex leader del comitato civico di Santa Cruz e oggi candidato presidenziale Luis Fernando Camacho, il «Bolsonaro boliviano», la conferma che quanto avvenuto nel paese è stato un golpe in piena regola. Sarebbe stato suo padre, Luis Fernando López, oggi ministro della Difesa – ha detto Camacho in un video diffuso sulle reti sociali – a stringere un accordo con l’esercito e con la polizia perché ritirassero il loro sostegno a Morales e poi a coordinare le azioni delle forze di sicurezza. «È stato nel momento in cui abbiamo avuto la garanzia che non sarebbero intervenuti in difesa del governo che abbiamo dato a Morales 48 ore di tempo per rinunciare». Più chiaro di così.