L’attentato di domenica nel cuore di Istanbul riapre il «libro nero» della Turchia e del Medio Oriente. L’ultima ondata di attentati, 2015-2017, era stata soprattutto di marca jihadista e questa attribuzione della autorità ai curdi del Pkk, che indicano addirittura il centro dell’operazione a Kobane – città siriana martire che nel 2014 ha resistito eroicamente al Califfato – lascia molti dubbi. Sia per la dinamica, assai sospetta, dell’arresto della presunta responsabile – verrebbe da Afrin che è però zona saldamente controllata dai turchi, come ha ricordato Murat Cinar sul manifesto – , sia per la smentita del Pkk (che solitamente colpisce i militari non i civili).
Siamo nel pieno del «malessere turco», come scrive nel suo saggio lo studioso turco Cengiz Aktar, nelle contraddizioni di un Paese sempre belligerante, all’esterno e all’interno, classificato dall’Indice della Pace Globale al 149esimo posto su 163 Paesi.

Che cos’è il «libro nero» della Turchia (e del Medio Oriente)? È una costante nella storia di decenni di attentati e assassinii condotti in un intreccio torbido tra terrorismo, guerriglia e servizi segreti, a partire dagli anni ’70-80 quando, dopo il golpe nel 1980 del generale Evren, gli attentati erano una minaccia alla vita dei turchi ma anche uno strumento per seminare paura e repressione. Erdogan – ieri a colloquio con la premier Meloni a Bali – dal 2019 lancia attacchi militari, spacciati come «lotta al terrorismo» , contro i curdi in Siria usando come mercenari miliziani (e terroristi) di Isis, Al Qaeda e Al Nusra che commettono crimini di guerra con la complicità dei generali turchi e l’assenso dell’opposizione «legale», visto che quella curda dell’Hdp in Parlamento è stata decapitata e incarcerata. In prigione qui ci sono 300mila persone (al secondo posto in Europa dopo la Russia) di cui quasi la metà per motivi politici e reati di opinione.

Questa Turchia assai poco democratica e oscura è stata indicata come il “Deep State” turco, lo stato profondo, quello manovrato in varie epoche prima dai militari e poi dall’Akp il partito del presidente Erdogan, al potere da 21 anni che punta nel 2023 alla rielezione. L’ultimo attentato è avvenuto in un quadro politico complesso e che potrebbe spingere la Turchia a una nuova operazione militare in Siria dove occupa un’ampia fascia del Nord manovrando, oltre all’esercito, le formazioni jihadiste, milizie che i turchi hanno schierato in Siria ma anche in Libia e nel Nagorno Karabakh.

Inoltre la Turchia sta negoziando con Stoccolma l’estradizione di esponenti curdi o almeno la loro «neutralizzazione»: senza un’intesa Ankara mantiene il veto all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia. La Turchia, Paese Nato che non ha imposto sanzioni a Mosca, pur rifornendo di droni Kiev, si è posta come mediatrice con Putin ed esercita un ricatto sugli alleati occidentali – compresa la questione dei 3,5 milioni di profughi siriani per cui la Ue versa sette miliardi di euro – puntando al riconoscimento, più o meno formale, della sua occupazione in Siria.

Se guardiamo in prospettiva i rapporti tra Putin, Erdogan e Israele – che con il ritorno di Netanyahu si rafforzano (l’israeliano è il leader che è stato più volte al Cremlino) – notiamo che Russia, Turchia e Israele sono stati che occupano territori altrui in violazione delle leggi internazionali e delle risoluzioni Onu. La cartina di tornasole di questa situazione è stata proprio la guerra in Ucraina. Forse qui in Italia è sfuggito che la scorsa settimana in una risoluzione Onu sul coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia nella disputa sulla Cisgiordania, Roma ha abbandonato la linea dell’astensione votando contro assieme a 16 altri Paesi. Ma soprattutto Kiev ha votato a favore annusando aria di accordo tra Putin e Netanyahu. L’occupazione russa di una parte dell’Ucraina per Israele potrebbe essere accettabile in cambio del via libera di Mosca ai raid sui pasdaran iraniani in Siria mentre la Turchia nella stessa area continua a bombardare i curdi quando vuole.

Il governo ucraino era, fino a qualche mese fa, incredibilmente filo-israeliano. Uno dei primi atti di Zelensky fu ritirarsi dal comitato Onu sui diritti dei palestinesi. E nelle interviste rilasciate durante i bombardamenti su Gaza, nel 2021, Zelensky ha affermato che l’unica tragedia nella Striscia era quella vissuta dagli israeliani. Ora invece Ucraina e Israele sono ai ferri corti perché è evidente che Tel Aviv punta sempre sul quel «doppio standard» internazionale che ha segnato tragicamente la sorte dei palestinesi, dei curdi, e, appunto, dei territori occupati.

L’obiettivo della Turchia è far sparire il Rojava, l’entità delle Forze democratiche curde, alleate del Pkk ma anche degli Usa nella lotta al Califfato e che insieme agli Stati Uniti e ad altre milizie arabe controllano l’Est siriano dei pozzi petroliferi. Ecco perché la Turchia ha rifiutato le condoglianze Usa per l’attentato di domenica: Ankara accusa Washington di armare il Rojava e di essere dietro il fallito golpe del 15 luglio del 2016, quando Erdogan chiuse la base americana di Incirlik con i missili Usa puntati contro Mosca e Teheran. Erdogan aveva già minacciato un’altra invasione del Nord della Siria in primavera ma era stato fermato da Russia e Iran – presenti al Nord in appoggio alle forze di Damasco – che con Ankara fanno parte del cosiddetto formato di Astana. Il Rojava è una doppia minaccia per la Turchia: è curdo ma anche caratterizzato da leggi democratiche, laiche e multi-etniche. Non sia mai che nel cuore del Medio Oriente nasca qualcosa di diverso dal «libro nero» denso di crimini e ingiustizie.