L’attentato di Istanbul avviene in un momento molto complesso a livello politico, economico e militare, per la Turchia e per il resto dell’area.

DOPO LE PRIME dichiarazioni del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, che confermava ufficialmente l’esplosione di domenica pomeriggio su Istiklal Avenue, è apparso davanti le telecamere il presidente Erdogan, poco prima della sua partenza per il vertice G20 a Bali: ha comunicato la morte di sei persone e parlato di possibile attentato terroristico. L’ipotesi è stata sostenuta dal suo vice Fuat Oktay e dal ministro della Giustizia Bekir Bozdag.

Nelle prime ore del giorno dopo, il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha fornito una serie di dettagli e lanciato forti messaggi politici rivolti agli alleati di Ankara. Secondo Soylu si tratta di un attentato terroristico, progettato da una persona in collaborazione con altri: una donna siriana addestrata nel cantone curdo-siriano di ad Afrin, che avrebbe confessato legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), il partito curdo-siriano Pyd e le unità popolari Ypg/Ypj. Altre 46 le persone arrestate.

Da parte sua il Pkk nega qualsiasi coinvolgimento: «È risaputo che non prendiamo di mira civili direttamente né approviamo azioni dirette a civili. Siamo un movimento che porta avanti una battaglia giusta e morale per la libertà». Nel 2013, su spinta del fondatore Ocalan, in prigione dal 1999, il Pkk rinunciò alla lotta armata per portare avanti forme di autodifesa sulle zone del Kurdistan storico dov’è presente.

SOYLU PERÒ ha concluso con una minaccia: «Presto daremo una risposta molto forte. Nessun paese è circondato come noi dai terroristi che collaborano con vari servizi segreti. Per questo, da tempo, siamo presenti in Siria e in Iraq per fermare le organizzazioni terroristiche e continueremo a farlo». Non una novità: da giugno le minacce vengono ripetute da Erdogan, senza trasformarsi in azioni concrete. Non ha detto però che le forze armate turche, insieme alle bande jihadiste dell’Esercito libero siriano, sono presenti sul territorio nord siriano, Rojava, dal 2016. Diverse località – tra cui la stessa Afrin – sono sotto il controllo di Ankara, occupate a livello militare ma anche a politico ed economico. Soprattutto dopo la ritirata parziale degli Usa e il ripristino parziale delle relazioni con Damasco, la presenza della Turchia sul territorio del Rojava si è consolidata.

CONDIZIONE simile anche in Iraq. Oltre alla base militare di Bashiqa, la Turchia avrebbe nella zona altre basi non rivelate per motivi di sicurezza. Inoltre il territorio del Kurdistan iracheno è facilmente calpestabile da Ankara viste le ripetute operazioni militari effettuate contro le postazioni del Pkk e la totale libertà di azione dei servizi segreti turchi. L’ultimo episodio: l’uccisione a inizio ottobre di Nagihan Akarsel, giornalista e attivista, che viveva in esilio da vari anni a Suleymaniye, condannata e detenuta in Turchia con l’accusa di attività terroristica. Pochi giorni dopo, in un incontro pubblico, l’ambasciatore turco Ali Rıza Güney ha risposto così a una domanda a proposito l’attentato: «In Iraq gli obiettivi relativi al Pkk sono al centro della nostra attenzione».

Infine, soprattutto dopo l’inizio della rivolta in Iran, anche Teheran ha deciso di approfittare dell’occasione e di intervenire militarmente sul territorio iracheno colpendo le postazioni militari delle formazioni armate e politiche, come IKBY, HDK-I e Komele. In fin dei conti non si tratta di una nuova «collaborazione»: il vice ministro dell’Interno iraniano Hussein Zulfikari, nel marzo 2019, aveva già annunciato le future operazioni militari congiunte per colpire il Pkk in Iraq.

DUNQUE LE PAROLE del ministro degli Interni pronunciate ieri mattina a cosa mirano? Ovviamente non è mai cessata la minaccia di operazioni militari in Siria e in Iraq, tuttavia questa volta il chiaro obiettivo è un altro: gli alleati storici. «Mi rifiuto di accettare le condoglianze dell’ambasciatore statunitense. È discutibile l’alleanza di questo paese che alimenta il terrorismo a Kobane, manda dei soldi tramite il suo Senato». Le parole di Soylu trovano una strana rappresentazione anche nell’immagine del momento dell’arresto della presunta attentatrice, una felpa con la scritta «New York».

LA PROFONDA crisi economica in casa, la guerra in Ucraina, i processi internazionali di corruzione e riciclaggio di denaro contro Erdogan e il suo partito, l’Akp, e infine i sondaggi, che lo danno perdente nelle elezioni in arrivo nel 2023, fanno sì che il presidente turco sia alla ricerca di ulteriore prestigio e credibilità a livello internazionale. In tale contesto la visita della delegazione del ministero del Tesoro degli Stati uniti e di Mairead McGuinness, commissaria europea per i servizi finanziari, ad Ankara a ottobre, per parlare delle sanzioni non attuate da parte della Turchia contro la Russia, hanno un peso importante.

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L’unica certezza a proposito dell’attentato di Istanbul è che Ankara sia alla ricerca – anche questa volta – dell’occasione per trarre vantaggi politici ed economici con lo scopo di rafforzare la sua posizione sul palco internazionale e beneficiarne in politica interna.

LA TURCHIA è immersa in una profondissima crisi economica e nessuna ricetta di Ankara risolve il problema. Mentre l’inflazione supera la soglia del 150%, la lira turca vive una svalutazione storica e infine i beni di necessità primaria crescono in modo sproporzionato. La situazione trascina la società verso una povertà tanto profonda che il governo centrale si sta preparando per il secondo aumento del salario minimo garantito in un anno. Questa situazione non aiuta Erdogan nei sondaggi secondo cui uscirebbe sconfitto nello scontro con l’eventuale candidato che potrebbe tirare fuori la coalizione d’opposizione per le elezioni del 2023.

In tale contesto ogni carta vincente ottenuta all’estero aiuta Ankara a rafforzare in casa l’immagine di un governo forte, di un partito solido e di un progetto credibile e rispettato. L’arroganza colonialista e maschilista che si vanta di mettere in ginocchio il mondo ovviamente si concretizza in questi giorni anche grazie ai passi compiuti dalla Svezia che ha accettato le richieste del governo turco nel suo processo di adesione alla Nato. Dopo lo stop all’embargo di armi alla Turchia, Stoccolma ha preso le distanze dalle Ypg/Ypj.

IN QUEST’OTTICA la visita del nuovo presidente svedese ad Ankara, appena due giorni prima dell’attentato, che ha confermato la fedeltà di Stoccolma al patto di Madrid è una carta vincente per il governo turco alla luce delle elezioni. Eppure, oggi più che mai, non è dato sapere se per la società turca – così rimpoverita e ferita – il piano politico ed economico di Erdogan potrebbe reggere ancora oppure a giugno del 2023 arriverà al suo capolinea.