La misura di quanto sia profonda la notte libanese è forse tangibile quando si ha a che fare con i dati di questi ultimi anni sulla violenza di genere.
Hanaa Khodr, 21 anni, bruciata viva dal marito che non voleva portasse avanti la terza gravidanza. Madre di due figli e incinta al quinto mese, è morta dopo una settimana di agonia il 17 agosto in ospedale a Tripoli. Ghinwa Rameh Allawi, 41 anni, di Akkar, madre di tre figli, dopo 14 anni di violenze ripetute da parte del marito, ha provato a togliersi la vita il 14 agosto. Qualche giorno prima il marito, che lavora nelle forze di sicurezza libanesi, l’aveva ripresa mentre la picchiava e la umiliava facendola inginocchiare con le mani alzate; aveva poi mandato il video alla famiglia di lei. Nabila Aidan, 35 anni, sempre di Akkar, madre di quattro, portata dal marito in ospedale ore dopo la sua morte negli stessi giorni. Il marito, che aveva dato lì appuntamento alla famiglia della vittima, è scomparso.

LA MAGGIOR PARTE DEI CRIMINI e delle violenze contro le donne non viene però denunciata. Statistic Lebanon ltd riporta che il 96% di donne e ragazze vittime di violenza domestica che vivono in Libano non aveva denunciato prima per svariati motivi. Avevano paura di non avere giustizia (27,1%), di non essere prese seriamente in considerazione (22,4%), di essere rifiutate dalla società (23,3%) o dalla famiglia (13,8%), paura della reazione dell’abusatore (14,3%) e di perdere i figli (14,7%). Altre ragioni sono: non sapere di poter essere aiutate (12,4%), denunciare una violenza non è una priorità in questo momento di crisi (11%), accettazione passiva della realtà (11,9%), aspettare di lasciare il paese per denunciare (5,2%).
«Assistiamo all’emergere di comportamenti senza precedenti da quando la crisi economica, politica e sociale è peggiorata» le parole di Ghida Anani, direttrice di Abaad, ong che si occupa di diritti delle donne e di uguaglianza di genere, che commenta così gli ultimi fatti di cronaca.

«DI SOLITO IL PERIODO PIÙ CALDO è settembre – prosegue Anani -, per via dello stress da ritorno a scuola dei figli, ma in questi ultimi mesi stiamo ricevendo tantissime chiamate in qualunque momento. La violenza è contro le donne sposate e quelle nubili per mano del padre o dei fratelli. (…) Leggi che dovrebbero proteggere le donne vittime di abusi esistono, ma non vengono applicate, specie in questo periodo di crisi e scarsità di risorse».
Una crisi, la più grave della storia del paese, che ha avuto e ha effetti devastanti sulla società, in particolar modo su quelle fasce di popolazione già isolate e in difficoltà prima del 2019.

I NUMERI DEL REPORT ANNUALE dell’agenzia Onu ESCWA sulla «Povertà Multidimensionale» in Libano del settembre 2021 erano già impietosi. 74% della popolazione in povertà e con i dati di accesso a sanità, educazione e servizi pubblici la percentuale sale all’82%, cifra raddoppiata rispetto al 42% del 2019. L’88% di palestinesi e siriani rifugiati, sempre secondo il report, vive sotto la soglia minima di sopravvivenza. Sono aumentate esponenzialmente le richieste di cittadinanza nelle ambasciate straniere e l’onda migratoria che parte dal Libano è paragonabile a quella della guerra civile (1975/90).

LO SCOPPIO DELLA BOLLA finanziaria nell’autunno del 2019, che gli analisti inascoltati avevano ampiamente previsto, ha causato una svalutazione della moneta, da 1507,05 a 35mila lire circa per un dollaro, un’impennata sregolata e incontrollata dei prezzi e una speculazione selvaggia. I conti bancari sono stati congelati e in pratica prosciugati, il ceto medio si è impoverito e non è più in grado di sostenere spese mediche, scolastiche o accedere a beni di prima necessità.
In Libano ogni settore della vita pubblica è privato perché le politiche di impianto neoliberista, soprattutto negli ultimi trent’anni, hanno puntato esclusivamente sul terziario, per cui la crisi ha trovato un paese completamente incapace di affrontarla.

Come ci racconta Zoya Rouhana, direttrice di Kafa – Basta violenza e sfruttamento -, ong nata nel 2005 per contrastare violenza di genere, domestica, sfruttamento della prostituzione e riduzione in schiavitù, «in aggiunta alla crisi, la pandemia e l’esplosione al porto hanno fatto in modo che le donne siano diventate le prime vittime. Abbiamo notato un aumento della violenza negli ultimi anni, ma soprattutto di quella di genere e all’interno delle famiglie».

«POSSIAMO SENZA DUBBIO DIRE – prosegue Rouhana – che la crisi ha rappresentato una chiara battuta d’arresto per ogni donna che voglia rompere il circolo di violenza nel quale vive. Fare scelte in questa direzione diventa particolarmente difficile quando i suoi bisogni e quelli dei suoi figli sono strettamente legati a chi abusa. Le priorità diventano un tetto, cibo e acqua. Ci sono poi altre discriminanti: essere rifugiata o cittadina libanese, l’appartenenza a una classe sociale o un’altra, avere o meno alle spalle una famiglia capace di supportare le decisioni».

I 24 casi di violenza su donne e bambini registrati la settimana scorsa e che Kafa ha utilizzato per l’ennesima campagna di sensibilizzazione social, non hanno però sortito alcun effetto per quanto riguarda le autorità. Il governo non sembra dare alcuna importanza al tema, continuando a ignorare i ripetuti appelli e l’opinione pubblica.

Ad aggravare ulteriormente la situazione contribuiscono altri fattori importanti. Le stazioni di polizia non hanno elettricità, le volanti sono ferme per mancanza di carburante o non ce ne sono abbastanza in dotazione, per cui molte chiamate vengono lasciate disattese. Di recente lo sciopero dei giudici ha bloccato molte procedure e praticamente anche i controlli sono fermi.

C’È POI L’ASPETTO LEGISLATIVO, in tutto favorevole all’uomo in caso ad esempio di divorzio e di affidamento dei figli. Il matrimonio rimane sotto la giurisdizione religiosa e non quella civile, quindi hanno molto rilievo il fattore culturale, quello geografico, il contesto sociale, l’appartenenza comunitaria. Sopravvive, ad esempio, in contesti marginali la pratica del matrimonio tra spose-bambine e uomini adulti, un vero e proprio atto di compravendita, o quella del matrimonio riparatore.

Ancora, le donne non possono dare la nazionalità ai figli, senza la quale non si può accedere a servizi essenziali come istruzione e sanità.

NON DEVE ALLORA trarre in inganno l’immagine un po’ cliché di un Libano/Svizzera del Medioriente aperto e libertario nella forma di alcune aree del paese più avanzate e ricche. Nella sostanza, quando non protetta dall’ombrello dell’appartenenza a una classe sociale alta, ma minoritaria, la donna libanese è in una condizione di forte inferiorità rispetto all’uomo.

I ripetuti appelli delle ong in proposito non sembrano essere una priorità in questo momento e il Libano precipita ogni giorno di più in un abisso, oltre che economico, di profonda indecenza.