La Francia impoverisce le sue ex-colonie e finanzia il proprio debito pubblico battendo moneta al posto loro? Le dichiarazioni di Di Maio si collegano a una critica crescente, in Africa e nel mondo francofono, nei confronti dei legami economici post- o neo-coloniali tra la Francia e le sue ex-colonie, e in particolare del funzionamento del franco CFA, cioè della moneta attualmente in circolazione in quattordici Stati dell’Africa occidentale e centrale (ripartiti in due unioni monetarie): erede di una valuta unica creata in tarda epoca coloniale, allora caratterizzata dalla convertibilità automatica con il franco francese, oggi il franco CFA è legato a un tasso di cambio fisso con l’euro. Negli ultimi anni è cresciuto il dibattito sull’autonomia finanziaria dei Paesi africani, e il franco CFA è spesso stato portato ad esempio dei legami di dipendenza che è urgente superare.

Molti esperti sono critici nei confronti degli effetti di un’unione monetaria africana “ancorata” all’euro. Secondo Ndongo Samba Sylla, economista senegalese e ricercatore alla Fondazione Rosa Luxemburg (co-autore del recente “L’arme invisible de la Françafrique”), il franco CFA “distrugge ogni prospettiva di sviluppo economico nelle nazioni che lo utilizzano”, limitando la competitività delle esportazioni degli Stati africani e vincolando le loro politiche agli indirizzi monetari restrittivi caratteristici dell’Eurozona, con effetti negativi sullo stimolo alla produzione locale e lo sviluppo delle infrastrutture e dell’industria.

Le élite locali hanno spesso difeso l’unione monetaria per la sua capacità di garantire stabilità e attirare investimenti esteri, ma in un contesto in cui lo spazio per politiche industriali e redistributive dei governi è stato pesantemente ridotto dalle riforme di aggiustamento strutturale sono ormai in pochi a beneficiare di tale stabilità. A questo si aggiungano dei meccanismi di governance che riaffermano un ruolo centrale della Francia, che siede nel Comitato di Politica Monetaria del franco CFA, e ospita un conto in cui i governi africani coinvolti depositano una parte delle loro riserve di valuta estera (che restano inutilizzate) in contropartita all’impegno del governo francese di garantire la convertibilità del franco CFA.

È possibile, però, affermare – come fa Di Maio – che con il franco CFA si finanzia il debito pubblico francese? Al netto degli ovvi vantaggi che le imprese francesi (ma più in generale europee e internazionali) che investono in Africa traggono dal sistema di cambio fisso con l’euro, sostanzialmente no: l’affermazione sembra legata all’idea di una “tassa coloniale” che le ex-colonie dovrebbero versare periodicamente al governo francese, notizia spesso circolata online ma dimostrata falsa. Non è un caso, d’altra parte, che sui social italiani il dibattito sul franco CFA sia spesso arrivato mediato da profili e blog della destra radicale, notevolmente semplificato e mescolato a teorie complottiste (come il fantomatico piano Kalergi di “sostituzione etnica”) che offrirebbero, secondo i loro diffusori, facili spiegazioni o “rimedi” per i flussi migratori dall’Africa.

Anche in questo caso, come per le politiche europee di austerità, politici ed esperti mainstream hanno a lungo rinunciato a elaborare una critica fondata di un sistema che crea squilibri e disuguaglianze, finendo per lasciare spazio a semplificazioni quando non a fake news. Che questo accada per liquidare la “retorica dei morti in mare” con un invito agli africani a starsene a casa loro rende le dichiarazioni di Di Maio ancora più strumentali e propagandistiche.