L’estate è arrivata l’ultimo giorno, mentre nel cielo volteggiano gli elicotteri dell’ossessione «alerte rouge» massima scala di sicurezza, la Croisette esplode di folla, più che cinefili curiosi del «Gran Finale» con lo smoking e la camicia bianca appesi al braccio nello «struscio» di un sabato speciale. Che Festival è stato questo numero 72 nella Francia di Macron alla vigilia delle europee, dei Gilet Jaunes – presenti tutte le sere alle serate indipendenti dell’Acid – delle proiezioni segrete di vago retrogusto Versailles? Al di là del Palmarés della giuria presieduta da Alejandro Inarritu, e composta quasi interamente da registi passati a Cannes – Alice Rohrwacher, Enki Bilal, Yorgos Lanthimos, Kelly Reichardt, Robin Campillo, Mainouna N’Daye e l’attrice Elle Fanning – un Festival di qualità alta, con belle sorprese venute da nomi nuovi per le platee internazionali (Mati Diop e il suo Atlantique); eurocentrico – su 20 film, 15 europei e solo sei no: Il lago delle oche selvagge (Cina), Parasite (Corea del sud), tre americani, The Dead don’t Die, A Hidden Life, Once Upon a Time … in Hollywood, uno del Quebec, Matthias and Maxime di Dolan- fiero paladino della sala – i film, e non solo quelli del concorso, hanno quasi tutti una data di uscita. All’interno di un’economia come quella cinematografica in Francia basata soprattutto sull’esercizio questa politica dà al festival un ruolo centrale nel sistema nazionale di cui diventa, appunto, il primo garante. Ma siamo sicuri che basta a arginare una crisi mondiale, tale come la raccontano pure distributori e produttori d’oltralpe?

Di Netflix non si è fatto più menzione ma è evidente che il colosso dello streaming non ha bisogno della Croisette specie dopo la vittoria agli Oscar, ignorare la questione però non serve a risolverla. Inoltre sul versante mercato internazionale il festival appare sempre meno influente, le major sono scomparse da anni, e forse non solo per ragioni legate al calendario.
E i film? Esprimono alcune necessità comuni che nei risultati migliori divengono una ottima lente con cui interrogare lo stato del cinema.

TEMPI PRESENTI Se il confronto col proprio tempo è una tensione che appartiene ai cineasti, mai come quest’anno i film visti qui cercano di dialogare con il mondo. Valgono il dettaglio più che il discorso generale, le piccole storie di individui «qualunque» più che il trattato ideologico-sociale, la ricerca più che le certezze.

E soprattutto la ricerca di un come, di forme e linguaggi per superare la cronaca. Vale anche per i registi che hanno sempre basato la propria poetica/politica su questo come i fratelli Dardenne che in Le Jeune Ahmed si confrontano con la diffusione tra i giovanissimi del radicalismo religioso, di fronte al quale il loro dispositivo – cinematografico – viene meno. La comprensione è impossibile, rimane lo schermo «nero». Persino Ken Loach sposta sul vissuto, i sentimenti, i legami familiari ciò che neoliberismo e precariato producono sugli individui (Sorry We Missed You).Tra l’alto e il basso come toponomastica dei divari sociali implacabili – e della perdita di una solidarietà di classe – si muovono i protagonisti di Parasite, il magnifico film di Bong Joon-ho, farsa crudele e commedia nerissima in una Corea uguale al resto del pianeta. E nel suo silenzio che da Nazareth lo porta a Parigi e a New York Elia Suleiman spinge all’estremo (It Must Be Heaven) la propria ricerca formale per restituire l’uguaglianza (in negativo) del contemporaneo. Il nord e il sud si sono uniti in questa nuova bussola e i più spiazzati sembrano proprio gli europei: dove mettere l’obiettivo? Le storie ci dicono anche che la «politica» intesa come partiti o riferimenti istituzionali è scomparsa, non solo nelle periferie francesi di Les miserables. Rimangono gli individui e la loro lotta per la sopravvivenza, i governi e la fine dei diritti. Lo mostra con chiarezza il bel film di Lech Kowalski On va tout peter – alla Quinzaine – la lotta degli operai francesi della GM&S contro la chiusura della fabbrica è quasi un «prologo» ai Gilets Jaunes. Una resistenza che le categorie abituali della politica – «destra» «sinistra» – non riescono a spiegare.
L’immaginario come laboratorio?

SESSO Si fa poco l’amore sugli schermi di Cannes, anzi quasi per niente. Sarà pure questa caduta del desiderio una conseguenza del neoliberismo e della precarietà sociale?

Lo «scandalo» del festival è stato il nuovo film di Abdellatif Kechiche, arrivato in coda, senza titoli di testa quasi a dichiarare il suo essere ancora «work in progress». Mektoub My Love: Intermezzo ritrova i personaggi del Mektoub di due anni fa, quasi li avesse lasciati sospesi nel tempo in una estate che volge alla fine, siamo a settembre del 1994, i corpi sono abbronzati con spellatura di troppo sole, la luce è cambiata. Il film ha reso l’effetto che ci si aspettava, trasformando i suoi sostenitori in talebani della critica (guai a dire che non lo si ama), più che con Tarantino, e accendendo quel po’ di pruderie che l’assenza di Polanski aveva arginato.

Anche Kechiche è finito in accuse di molestie, le sue attrici, Lea Seydoux e Adele Exarchoupoulos hanno categoricamente preso da lui le distanze, così per due giorni sulla Croisette si è parlato più che del film della scena (nel cesso della discoteca) di cunnilingus, e dell’attrice, Ophélie Bau che è fuggita in lacrime mentre il regista si è scusato col pubblico alla fine della proiezione ufficiale.

Nonostante i corpi e la filosofia del culo – oggetto di una lunga e bella conversazione tra due delle protagoniste, non deve essere troppo grosso né piatto, meglio un po’ bombato e vale per i maschi e le femmine – che si agita in un trionfo del twerking (con lo sguardo al movimento della danza del ventre) su disco trance anni ’90, la seduzione o l’erotismo non appartengono a Intermezzo – aperto dalla citazione sul vedere e il guardare di un versetto del Corano. E nemmeno interessano al regista. Quello che appare con più evidenza rispetto a Mektoub, e che lo rende più interessante, è l’idea di un «teatro» – la spiaggia, qui specialmente la discoteca dove i corpi nel loro incontrarsi e perdersi, tra i fluidi di sudore di una trance, sono per il regista segni e strumento di una mise en scene, forse anche in abyme, cinematografica. Il prolungare fino allo sfinimento conversazioni e sculacciate nel sesso – come accadeva in La vita di Adele – traduce il racconto in una perfomance incessante, mentre si balla tutto accade, si parla, ci si bacia, il movimento è l’elemento essenziale, la storia è dentro questa «casualità». Potrebbe essere una installazione oltre le sue 4 ore, è certamente uno sguardo astratto e visionario sul cinema – in cui il regista si ritaglia il ruolo di osservatore distante nel personaggio di Amin, suo doppio. Lo shaker di corpi è ancora più astratto, visionario a suo modo estremista, violento, martellante. Un’ossessione e una dichiarazione personalissima di cinema. Che non può lasciare indifferenti.

IL GENERE Con gli zombie di Jarmush per l’opening, la carrozza d’oro a Carpenter, una Quinzaine con l’iraniano inglese Babak Anvari, Robert Rodriguez e Robert Eggers, più morti viventi haitiani e senegalesi in concorso, il genere -l’horror in particolare- era uno dei temi dominanti della selezione cannense di quest’anno. Certo, in una versione un po’ nobilitata, filtrata dal cinema d’arte, perbenizzata. Autori marginalizzati dalla corporativizzazione delle scena indipendente Usa, come Larry Fessenden -e il suo nuovo Depraved (ispirato a Frankenstein e ambientato a nord di New York) rimangono nascosti negli anfratti del mercato -dove trent’anni fa si scoprivano Peter Jackson e Tsui Hark. Ma uno si chiede cos’avrebbe pensato George Romero vedendo il suo amico John Carpenter in tuxedo da sera e, soprattutto, di fronte all’insensato The Dead Don’t Die, di Jarmush, un omaggio a Romero così sinceramente sentito che hanno persino scoperto e replicato il colore della macchina usata sul set di La notte dei morti viventi ma che poi buca completamente la valenza metaforica e politica dei ghoul di Romero e soprattutto la loro forza eversiva, cavandosela con un paio di battute anti Trump.

Rispetto alla coolness terminale, del film di Jarmush, il più impercettibile e profondo accenno al soprannaturale di Mati Diop, in Atlantique, sembrava più fedele a un uso del genere non normalizzato, ammicante. Come il pasticciato Wounds di Anvari, soffre di coolness terminale anche uno dei titoli più celebrati della Quinzaine, The Lightouse, asfissiante duetto tra Robert Pattison e Willem Dafoe in un faro remoto lungo la costa del Maine. L’1.33 del formato e una fotografia di grigi densi come la nebbia – Melville, Conrad, la luce della lampada che ipnotizza fino alla pazzia, il frammento di un tentacolo…. Prigioniero di un’estetica curata al tavolino, non solo non fa paura: sembra il prodotto di un cinema senza gioia, senza trasgressione e senza voglia (o bisogno) di offendere.