Peggio Donald Trump o Ron DeSantis? Del presidente sconfitto il 3 novembre scorso non si può che dire tutto il male possibile. La sola idea che si ricandidi nel 2024 suscita nel mondo progressista americano la reazione che può provocare il pensiero di una ricaduta dopo aver creduto di essere guariti da una malattia mortale. Eppure lo scenario di un ritorno di Trump non sarebbe il peggiore. Non dovesse essere lui, la prossima volta, il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, il più quotato è l’attuale governatore della Florida, eletto nel 2018 grazie al sostegno ricevuto da estremisti di destra, suprematisti bianchi e xenofobi. Personaggio inquietante da far sembrare Donald Trump un brav’uomo.

E SÌ, PIÙ CHE TRUMP stesso, è il trumpismo con i suoi eredi, il protagonista principale della fase attuale, di qui alle elezioni di medio-termine, nel 2022, e di quella seguente che porterà alle prossime elezioni presidenziali, nel 2024. Per le quali il settantaquattrenne Trump ha già prenotato la sua candidatura, prevedendo “un trionfante ritorno alla Casa Bianca”: una dichiarazione, tuttavia, di rito, di fronte ai sostenitori plaudenti riuniti a Orlando per ascoltarlo alla sua prima uscita come leader politico.

Nella sostanza è più prevedibile che sarà alla testa del fronte conservatore, non necessariamente per spingere la sua candidatura, ma lasciandolo credere fino all’ultimo, o fino a che sarà possibile, con i processi che continuano a gravare su di lui e considerando anche la sua scarsa dotazione finanziaria attuale. In tal caso, Ron DeSantis è pronto alla corsa col suo sostegno.

CERTO È CHE Trump userà fino in fondo la forza che ancora conserva intatta nel suo movement – così continua a chiamarlo – nucleo d’acciaio del Partito repubblicano, rendendo superflua ogni ipotesi – Trump le definisce fake news – della nascita di un terzo partito. Perché mai, lasciare il Partito repubblicano per un’idea che in America non ha mai avuto successo, quando, secondo un sondaggio condotto tra i repubblicani presenti domenica alla Conservative Political Action Conference di Orlando, il 95 per cento ritiene che il Grand Old Party debba proseguire lungo il solco delle politiche che hanno caratterizzato l’amministrazione Trump.

La politica, nel Partito repubblicano, ha dunque lasciato definitivamente il posto al culto di Trump, per nulla scalfito dalla sconfitta e, come ogni culto, scarsamente contrastato, anzi alimentato proprio da chi osa contrastarlo, considerato un nemico, un traditore, una quinta colonna degli avversari. Non solo personaggi, che Trump ha nominato con massimo disprezzo, come Mitt Romney o Liz Cheney, o quel pugno di parlamentari che non hanno seguito il presidente nel suo tentativo sovversivo del 6 gennaio e ne hanno preso le distanze. Ma anche un cagnolino come Mitch McConnell, colpevole di aver cautamente stigmatizzato l’invasione del Congresso, per poi però rapidamente rimettersi a cuccia e dichiarare la sua fedeltà al capo, dicendosi “assolutamente” favorevole alla candidatura di Trump nel 2024.

NIENTE DA FARE. Con Trump ha chiuso. Adesso la sua rielezione in Kentucky è a rischio. Come a rischio saranno tutti coloro che non si allineeranno molto disciplinatamente, senza alcuna incertezza. La vera forza di Trump e dei suoi seguaci è nella capacità di mettere fuori gioco ogni forma di dissidenza. Dissidenza non di natura politica, ma semplice rifiuto di replicare pappalesgamente le clamorose bugie di Trump, prima tra tutte quella della vittoria rubata, che è ancora il mantra principale della sua retorica, in grado di galvanizzare il suo movement.

Consegnandosi a Trump, i repubblicani non hanno vie d’uscita. Nessun altro ha la sua capacità di traino. Trump ha fatto terra bruciata. E nel frattempo è riuscito a far emergere una nuova leva di esponenti, nazionali e locali, che si rispecchiano nella sua idea di America, nella sua visione di un antagonismo fino agli estremi limiti nei confronti dei democratici e degli stessi repubblicani soft. Un estremismo che non è solo verbale, ma può facilmente prendere le forme della rappresaglia, anche fisica, nei confronti di chi non è in linea, perfino verso un fedelissimo come Mike Pence, spaventato per la sua stessa sicurezza, per non aver eseguito gli ordini di Trump nel corso dell’ormai famosa seduta che decretò la vittoria di Biden. Anche nel Congresso la presenza dei seguaci di Trump si fa sentire, da quando un caucus di falchi dell’estrema destra che ha preso il controllo del gruppo parlamentare repubblicano.

IN UN SENATO con una maggioranza esile a favore dei democratici, l’agenda di Joe Biden è continuamente a rischio, a cominciare dal pacchetto di misure di contrasto alla pandemia. Il presidente democratico gode di alti indici di popolarità, ben diversamente da quanto ha affermato Trumpa Orlando. Ma di fronte alla dichiarazione di guerra di Trump, tutto si fa più difficile.
E la sola idea di riprendere una nuova campagna elettorale, come quella appena conclusa, per il cruciale voto di midterm, mette in crisi anche la speranza di un’America avviata verso quella che era la “normalità” prima di Trump.