Se Netflix era il nuovo arrivato del festival 2015, durante il quale Ted Sarandos tenne un lungo discorso al Marché, promettendo che il suo streaming service non era un nemico del cinema, e dei cinema, Cannes 2016 nasce letteralmente nel segno di Amazon. Non solo il film di apertura del festival, Café Society, batte la bandiera di Amazon Studios: il colosso di Jeff Bezos è alla Croisette con i due film di Jim Jarmush (uno in concorso, l’altro a mezzanotte), quello del coreano Park Chan-Wook, Madamoiselle, e The Neon Demon, di Nicolas Winding Refn.

Dopo aver fatto quasi piazza pulita a Sundance (dove ha comprato, tra gli altri, i diritti di distribuzione Usa degli ultimi film di Todd Solondz, Ken Lonergan e Whit Stillmann, e quelli di un bel documentario su JT Leroy), Amazon Studios ha articolato il suo credo, rispetto al rapporto tra l’uscita su piattaforma streaming e quella in sala durante CinemaCon, l’annuale convention degli esercenti che si tiene in primavera a Las Vegas. Parola d’ordine è un approccio soft, meno integralista di quello di Netflix, con uscite nei cinema, (coordinate in partnership con distributori indipendenti come Roadside Attraction), che spesse precedono quelle online e la disponibilità a guardare ogni singolo film come un caso a sé.
In una lunga intervista su Hollywood Reporter, per esempio, Woody Allen (che sta ultimando una serie tv prodotta da Amazon che andrà in onda quest’estate) racconta di aver parlato a lungo con loro della distribuzione di Café Society, che infatti arriverà al pubblico americano come (quasi) tutti i suoi film – prima in un numero limitato di sale nelle maggior città, poi in tutto il paese. Solo mesi dopo online.

Mentre Hollywood sta alzando gli scudi contro la Screening room (l’idea di una contemporanea tra grosse uscite in sala e streaming, al costo di cinquanta dollari per film), la disponibilità a essere più elastici e, almeno per ora, a adottare una formula di passaggio graduale tra cinema e online, sta giovando molto alla reputazione di Amazon.

Forse non dovrebbe sorprendere: a differenza di Netflix, infatti, il Dna di Amazon Studios è fatto di cinema doc. Prima di tutto nella persona di Ted Hope, il presidente della compagnia e uno dei produttori indipendenti più seri, di gusto e benvoluti da decenni, a partire dalla fondazione (insieme a James Schamus e David Linde), nel 1990, di Good Machine, la casa newyorkese a cui si devono film come Happiness di Todd Solondz, Safe di Todd Haynes, Y Tu Mama Tambien di Alfonso Cuaron e i primi film di Ang Lee.

Libero battitore da quando (nel 2001) Good Machine fu venduta alla Universal (se ne andò per protesta), Hope ha continuato a produrre (tra gli altri, tutti i Solondz, 21 Grams di Inarritu..) fino a quando è diventato direttore della Film Society di San Francisco, poi della piattaforma digitale Fandor, ed è infine approdato ad Amazon, due anni fa, portando con sé la credibilità del suo cv, rapporti forti con gli autori, e autentica passione. Al suo fianco, come capo della distribuzione e del marketing, Hope ha voluto un altro veterano del cinema indipendente americano, Bob Berney. Dopo aver lottato per anni con il farsi e disfarsi intrinseco alle produzioni indipendenti, con Amazon alle spalle, Hope si trova a disposizione un portafoglio sicuro e molto grosso. Il che rende avvincente osservare quello che sta facendo e legittimo fare un po’ di tifo.