Le poche righe all’inizio di BlackBerry, primo titolo del concorso berlinese, ci avvertono che questa è «una storia vera», quella del celebre telefono prodotto dalla società canadese Rim (Research in Motion) nel 1999, che in pochi anni ha ottenuto un assoluto dominio sul mercato nascente degli «smart-phone» e un’altrettanta repentina caduta con l’arrivo di rivali, segnatamente della Apple, ai quali la Rim non è riuscita a tenere testa nell’innovazione tecnologica.

Una scena da «BlackBerry»

MA «BLACKBERRY», il film di Matt Johnson – con tra gli altri Jay Baruchel (Facciamola finita) e Glenn Howerton (C’è sempre il sole a Philadelphia) nel confronto narrativo con questa materia – che potrebbe aprire molte questioni a cominciare da quella che riguarda proprio la tecnologia a cui il mercato impone una velocità di usura senza pari – non va oltre l’annedotica della vicenda, seguendo una scrittura prevedibile passo dopo passo. I nerd simpatici cinefili e scapestrati, il cinico Ceo di multinazionali, l’ascesa, la caduta: tutto è già lì dalle prime scene finamente sporche come un vecchio vhs degli anni ’90. Il modello orizzontale delle serie tv riesce a sopraffare il cinema ancora una volta. Dal primo film in concorso, passiamo al primo film tedesco in concorso.

«SOMEDAY WE’LL TELL EACH OTHER EVERYTHING» (alla lettera: «un giorno ci diremo tutto»), torniamo indietro di altri dieci anni e ci allontaniamo anni luce dalle guerre digitali. Siamo in un villaggio della Germania Est, nell’estate del 1990. Un’adolescente di nome Maria (Marlene Burow) passa le sue giornate a leggere romanzi nel sottotetto della fattoria dove vive insieme al suo ragazzo Johannes (Cedric Eich) e alla famiglia di lui che l’ha accolta «come una figlia» da quando la madre ha perso il lavoro. In mano, Maria ha sempre un Dostoevskij, un fratello qui un castigo là… mentre il destino le prepara invece un D.H. Lawrence. Infatti, dall’altra parte del campo, vive Henner (Felix Kramer). Un uomo maturo, mandriano di cavalli, irsuto, selvaggio e solitario: uno stallone in piena regola, profumo compreso. Maria non ci mette molto ad improvvisarsi Lady Chatterley e ad andare a trovare il suo guardiacaccia, il quale si rivela essere esattamente il maschione virile che ci si aspettava. La fine sarà tragica ma, sul fondale della riunificazione tra le due Germanie, gli amori pastorali di Maria con Herren non avranno per altro alcun valore metaforico. Alcun valore in assoluto.

Se ne va così un primo film tedesco in concorso. Uscendone, ci si domanda fortemente come Someday… possa essere stato selezionato per il concorso ufficiale. La regista Emily Atef non è certo al suo primo film. Tra gli altri, è suo un biopic su Romy Schneider del 2018, Trois jours à Quiberon che, pur non brillando di originalità, aveva dalla sua una certa dinamica, se non altro per l’unità di tempo e di luogo. Someday… si fa notare, insieme a BlackBerry, per l’assoluta mancanza di ambizione del proprio progetto. O forse è la mediocrità stessa ad essere divenuta l’orizzonte ultimo che i selezionatori della Berlinale hanno voluto premiare selezionandoli. Se è così, si può riconoscere loro una certa radicalità. Someday… in particolare spinge il cinema europeo d’autore, già di per sé non particolarmente vivace, verso la più totale immobilità. Se dal lato del contenuto il racconto è ambientato in un punto specifico della Storia tedesca, senza per altro fare di questo contesto qualcosa di significativo, a parte il revival di qualche cliché vintage, per quanto riguarda la forma si tratta di un oggetto che potrebbe essere stato fabbricato in qualunque momento, tanto il suo modo d’essere è indifferente a quella cosa in perenne movimento che chiamiamo cinema. È una partenza in retromarcia per questo inizio di concorso. Speriamo di essere smentiti nei giorni a venire.