Dopo i funerali di Stato tributati a Silvio Berlusconi nel Duomo di Milano da un governo di destra che celebrava, insieme al fondatore scomparso, il proprio potere istituzionale dichiarando il lutto nazionale e disponendo per tre giorni l’esposizione delle bandiere italiane ed europee a mezz’asta sugli edifici pubblici dell’intero territorio nazionale e sulle sedi diplomatiche e consolari all’estero, cosa mai accaduta per un ex presidente del Consiglio; dopo l’iscrizione al Famedio del cimitero Monumentale di Milano proposta da Forza Italia, che ha posto Berlusconi accanto ad Alessandro Manzoni e Carlo Cattaneo, è giunta l’intitolazione dell’aeroporto internazionale di Milano Malpensa, chiesta dalla Regione Lombardia, accolta dall’Enac e approvata in tempo record dal ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture: una manovra lampo, un blitzkrieg simbolico della Lega, che ha voluto intestarsi il merito di far assurgere il Cavaliere alla statura di Leonardo da Vinci, Charles De Gaulle e John F. Kennedy.

A UN ANNO DALLA MORTE, tra gli alleati di governo pare in atto una contesa per la spartizione delle reliquie. In tempi antichi, il possesso di un dito, una costola, un dente, un lembo d’abito, una scheggia di croce – resti anatomici o articoli di significato religioso, tra devozione e superstizione – ha fatto la fortuna di santuari divenuti mete di pellegrinaggio e destinatari di offerte votive. Sfiorare le reliquie – dei santi, ma anche del re, intermediario con il divino – è garanzia di guarigione: i ciechi acquistano la vista, i paralitici camminano, i dementi rinsaviscono, gli indemoniati e gli ossessi sono liberati. Non stupisce che i resti d’esistenze reali o immaginarie venissero trafugati, rubati, contraffatti, o che i corpi venissero smembrati.

Oggi la reliquia non può che essere mediatica, e quella di Berlusconi – un “corpo del sovrano” che non si è mai fatto Stato – è perennemente proposta, senza contestualizzazione, in un eterno presente, su ogni rete televisiva che gli sia appartenuta o che sia stata piegata alla pervasività governativa. L’immagine del leader scomparso era presente nella campagna elettorale per le elezioni del Parlamento europeo, affissa sui muri e circolante sugli autobus, sorridente e abbracciato al successore alla guida del partito da lui creato. Era presente nelle due ultime ricorrenze del 25 aprile cadute durante il governo Meloni, a coprire la falla di un esecutivo che non può dirsi antifascista malgrado abbia giurato sulla Costituzione: “partigiano” a Onna, con il fazzoletto della Brigata Maiella al collo, a parlare di Liberazione, occupazione tedesca e totalitarismi, ma mai di fascismo.

Una presentificazione catodica, per usare un termine coevo alle trasmissioni che precedettero la sua famosa “discesa in campo”, che lo fa sembrare immanente e che provoca cortocircuiti, o forse apparizioni, come il paragone tra il tentato assassinio di Donald Trump e l’episodio in cui un uomo, durante un comizio, gli scagliò in faccia una statuetta della Madonnina del Duomo; un perito elettrotecnico assolto perché dichiarato incapace di intendere e volere che, va detto, Berlusconi perdonò, e che oggi afferma di pregare per lui.

NON È IL CORPO a rimanere, ma l’aura fantasmatica, ed è così per tutti i leader populisti che si incarnano in un immaginario nutrito di significati filmici – in America il mai esausto copione del Far west, dell’eroe insanguinato, dell’individuo solo che sgomina il nemico; da noi il circo felliniano, Totò, la commedia dell’arte goldoniana.

Sarà un’apparizione perturbante, quella di Berlusconi su Malpensa, se non si riuscirà a revocarla: un rimosso destinato a tornare, un revenant che nel mondo ha una nomea univoca e che da noi ha potuto essere per quattro volte presidente del Consiglio, imprenditore edile, fondatore di Fininvest e Mediaset, editore e banchiere, tessera 1816 della P2, creatore dal nulla di Forza Italia, proprietario dell’AC Milan e poi, più modestamente, del Monza, propugnatore di leggi ad personam, imputato in processi clamorosi, condannato per frode fiscale e affidato per un anno ai servizi sociali dal Tribunale di Milano, autore di memorabili sketch e siparietti, dalla tenda beduina per Gheddafi montata a Villa Pamphili alla proposta di scrittura come kapò in un film sui campi di concentramento all’europarlamentare tedesco a capo della delegazione Spd a Strasburgo, dall’ammiccamento al presidente di discendenza afroamericana degli Stati Uniti definito “abbronzato” al “cucù” all’indirizzo dell’allora cancelliera tedesca.

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Il cielo sopra Milano, quello in cui si atterrerà all’aeroporto internazionale Silvio Berlusconi, non sarà quello degli angeli di Wenders sopra Berlino; ricorderà più quello di Bulgakov sopra la Mosca stalinista del 1930, quando, ne Il maestro e Margherita, accade l’apparizione di Woland, il “consulente straniero” esperto di magia nera che altri non è se non Satana, un Satana ridanciano e burlone circondato da assistenti che emergono da uno specchio e che, allestito un grandioso spettacolo teatrale, regalano banconote che si moltiplicano nelle tasche degli spettatori per trasformarsi, il giorno dopo, in pezzi di carta o in uccelli.

Compagni grotteschi, come Behemoth, l’enorme gatto parlante, e Azazello, il piccoletto con una zanna in bocca e una bombetta in capo, addetto alle intimidazioni e sicario in extremis. Altrettanto onirico e più circense il luna park messo in scena da Berlusconi, con l’igienista dentale, lo stalliere, la nipote di Mubarak, le cene eleganti, le “olgettine” entrate nella toponomastica milanese e, prima ancora, l’eterna riproposizione di un anticomunismo senza comunismo, di un’Italia pietrificata negli anni Cinquanta impersonata da Peppone e don Camillo, imbandito dalle sue televisioni tra paillettes, silicone, domatori di talk show, giornalisti-pupazzi come il Gabibbo: la rappresentazione della realtà come un varietà inframmezzato da consigli per gli acquisti.

ERA UN UOMO CHE AMAVA la vita, ottimista, vorace e impetuoso, che aborriva la noia, il Cavaliere. Ma, sotto le spoglie della commedia all’italiana, trapelava il fastidio per le discussioni parlamentari, per le Camere descritte come luoghi di perdigiorno, per l’attività politica contrapposta all’efficienza e al decisionismo aziendale, per l’autonomia della Magistratura.

Questa volontà di potenza, libera da vincoli e controlli, si è dapprima radicata nel senso comune come intemperanza bonaria per giungere oggi alle sue reali conseguenze: l’impianto costituzionale repubblicano a rischio di essere manomesso da tre riforme – premierato, autonomia differenziata e giustizia – che rappresentano formalmente la composizione dell’armonia fra le tre forze che presiedono il governo al quale Berlusconi ha aperto la strada e che lo riconoscono come nume tutelare.

Che l’armonia sia però di facciata, sta a dimostrarlo proprio il fatto che il corpo politico-simbolico di Berlusconi sia oggetto di contesa tra i continuatori del suo sistema di potere: il partito da lui fondato, per il quale si immagina ora un passaggio da «una Forza Italia di resistenza» a «una Forza Italia di sfida» di cui «il brand è già lì e scritto»; il partito che affonda le radici nella temperie repubblichina, che detiene la presidenza del Consiglio e che ha portato l’Italia all’isolamento e all’irrilevanza in Europa, e la compagine leghista, che dal secessionismo originario si è progressivamente trasformata in far-right decisa a strappare voti a Fratelli d’Italia e introiti pubblicitari a Mediaset.

IL 30 DICEMBRE 2023, il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, a conclusione del suo intervento in Aula nella discussione sulla legge di bilancio, ha citato la chiusa del Manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti: «Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!». Alludeva a un testo che anticipa la retorica fondativa del fascismo, ma la Lega lo ha preso sul serio.

«Qualche volta sì, mi piacerebbe davvero farmi da parte, lasciare che gli altri se la cavino da soli. Mi viene in mente Ungaretti: ‘Lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata’. Per due o tre giorni, naturalmente. Non di più», disse Berlusconi in un’intervista alla Stampa. Era il 1993.