Sotto al cielo grigio e una pioggia sottile nella capitale tedesca, dove il global warming rende le fontane ghiacciate quasi un ricordo vintage, si apre oggi la Berlinale, l’evento più atteso dalla città con molte proiezioni subito sold out (vedi il nuovo film di Abel Ferrara) e una massiccia partecipazione che porta le persone a prendere permessi o ferie per l’occasione.

Tutto è pronto, dunque, le sagome degli orsetti disseminate un po’ ovunque – a contrastarne il primato ieri i cuoricini di San Valentino – accolgono gli addetti ai lavori, le artiste e gli artisti, il pubblico in una Berlino che la gentrificazione ha reso sempre più proibitiva fra lusso, tende in strada, affitti impossibili.

Non sappiamo cosa ci aspetta dall’edizione 74, che sarà però sicuramente ricordata come quella preceduta dal più alto numero di polemiche, a cominciare dalle dimissioni, la scorsa estate del direttore artistico Carlo Chatrian (alla co-direzione insieme a Mariette Rissenbeek che va però in pensione), contro le quali si sono alzate le voci di centinaia di cineaste e cineasti; alla nomina della nuova direttrice, Tricia Tuttle, con diversi mesi di anticipo sul festival.

Fino alle proteste corali, qualche giorno fa, all’annuncio della presenza sul Red carpet dell’inaugurazione di alcuni esponenti dell’AfD, il partito di estrema destra tedesco – invito poi ritirato dalla stessa Berlinale.

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MA È SOPRATTUTTO la Palestina che ha sollevato – e continua a farlo – le critiche più dure. La politica della Germania che silenzia sistematicamente ogni voce di dissenso contro il massacro in atto a Gaza, mettendo sotto osservazione chi esprime un pensiero diverso è all’origine del German Strike, un «boicottaggio» – che peraltro dovrebbe essere messo in atto anche verso altri paesi Italia in testa, basta vedere il linguaggio mediatico e le censure Rai di questi giorni – a cui hanno aderito moltissime personalità della cultura non solo. E la sottoscrizione dello «strike» ha spinto diversi addetti ai lavori e qualche regista a non partecipare al festival.

Fa un certo effetto tutto questo a fronte delle costanti e giustissime preoccupazioni sul rispetto dei diritti di cui la Berlinale si fa portatrice: come allora è possibile pensare che si possano negare finanziamenti a artisti palestinesi, chiedere ragione delle loro implicazioni politiche, attaccare chiunque esprima un pensiero diverso?

E spiace ancor di più vedere nel programma l’assoluta mancanza di titoli palestinesi – con l’eccezione di un ecumenico film coproduzione Palestina Israele – se si pensa poi a quanto è accaduto in passato con il comitato di Kassel documenta costretto a dimettersi, e ben prima del 7 ottobre, per accuse non meglio chiarite di «antisemitismo» ma principalmente per l’impossibilità di fare scelte artistiche libere.

Peccato che la Berlinale abbia perso l’occasione per contrastare questa costante censura.