La crisi delle Istituzioni pare davvero avviata verso il baratro. La scelta di Giuliano Amato di illustrare in una inusuale conferenza stampa i motivi della bocciatura da parte della Corte Costituzione dei referendum su eutanasia e cannabis, quelli su cui due milioni di persone, uomini e donne consapevoli e tanti giovani, avevano creduto, in un tempo assai breve si rivelerà un boomerang.

Per il metodo e per il merito. E’ davvero stravagante accusare i comitati promotori di avere raccolto le firme su un titolo truffaldino e addirittura di avere sbagliato i quesiti. Il titolo è deciso dalla Cassazione e per quanto riguarda la scelta delle abrogazioni di alcune disposizioni della legge antidroga rivendico la assoluta puntualità del quesito. Andiamo con ordine.

Intervenire con lo strumento referendario su un testo complicato come il Dpr 309/90 non è semplice. Va detto per prima cosa che quella legge proibizionista voluta da Bettino Craxi, convinto dalla scelta punitiva degli Stati Uniti segnò il tradimento della tradizione laica e libertaria dei socialisti come Loris Fortuna, è ignobile e rappresenta una vergogna (un vero crimine averla fatta firmare a un giurista come Vassalli). Durante la discussione in Senato molte voci si levarono per condannare una brutta legge e Paolo Volponi ricordando Cesare Beccaria deprecava un furor sanandi che vale ancora oggi rispetto alle paure manifestate paternalisticamente sulle conseguenze del referendum.

Nella mia relazione di minoranza ero facile profeta a denunciare le conseguenze nefaste della repressione, che si manifestarono con tragedie individuali e con l’esplosione delle presenze in carcere. Nel 1993 un referendum popolare cancellò le norme manifesto (drogarsi è vietato) e le norme più repressive.
Dove era Amato? Certo non la pensava come Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli. Nel 2000 io ero sottosegretario alla Giustizia e lavoravo pervicacemente per una riforma di quella legge elaborando testi che purtroppo rimasero nei cassetti.

Nel novembre si svolse a Genova la Conferenza nazionale sulle droghe che si caratterizzò per l’intervento memorabile di Umberto Veronesi, ministro della Sanità. Una grande lezione a favore della distinzione fra le sostanze stupefacenti e della smitizzazione dei danni della cannabis che fece indispettire il Presidente del Consiglio Amato che boicottò il confronto non presenziando alla conclusione (Livia Turco ricorda bene quell’affronto!) e definì la relazione di Veronesi come il contributo tecnico di un tecnico. Una delegittimazione che fa il paio con l’insulto, falso, rivolto ai promotori del referendum a ventidue anni di distanza. Ma la bulimia della caccia alle streghe indotta dalla war on drugs si realizzò con l’approvazione truffaldina nel 2006 di un decreto legge noto come legge Fini-Giovanardi che aveva come motto “la droga è droga” equiparando tutte le sostanze in una unica tabella e punendo la detenzione con il carcere da sei a venti anni. Nella raccolta dei Codici la legge antidroga è riportata con il testo della Fini-Giovanardi, cancellata nel 2014 come incostituzionale e solo in nota viene riportato il testo vigente che è quello risuscitato del 1990.

La questione è semplice e anche gli assistenti della Consulta possono comprenderlo: il primo comma dell’art. 73 che è il cuore della legge e prevede le sanzioni penali per le violazioni, elenca 17 (sic!) condotte illecite, la prima è la coltivazione che noi cancellavamo per rispondere positivamente alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha stabilito non punibile la coltivazione domestica della cannabis. Punisce con la reclusione da sei a venti anni le violazioni legate alle cosiddette droghe pesanti. Le pene per le violazioni relative alle droghe leggere sono indicate nel comma 4 con la pena da due a sei anni di carcere e sono richiamate le condotte descritte nei commi 1, 2 e 3. Questo è il legame presente nella legge e cancellando la pena detentiva per la cannabis ci si è rifatti alle condotte del comma 1 che riguardano tutte le sostanze.

Se fosse vero l’assunto di Amato che l’art. 1 non riguarderebbe la canapa, saremmo di fronte a un fatto enorme: le decine di migliaia di processi e le incarcerazioni di massa sarebbero state un abuso. La sottigliezza gioca davvero scherzi paradossali.
Che fare ora? Continuare nel nome di Arnao e di don Gallo la battaglia per il cambiamento come in Uruguay, in Canada e in California.
Ma per la democrazia e lo stato di diritto occorre riportare la Corte Costituzionale nell’alveo del rispetto dell’art. 75 della Costituzione con criteri precisi senza straripamenti per l’ammissibilità dei referendum e senza entrare abusivamente nel merito e nella legge di risulta. Sarebbe ora anche di prevedere la dissenting opinion.
Chi pensava di ridurci al silenzio, ha fatto male i conti.