Da oggi scuole aperte in tutto l’Afghanistan per i bambini delle medie e delle superiori. Chiuse invece per le bambine. Il provvedimento del ministero dell’Istruzione è stato promulgato ieri, lo stesso giorno in cui la scritta esterna dell’ex ministero per gli Affari femminili, nel quartiere centrale di Shahr-e-Now a Kabul, è stato sostituita da quella del ministero per la Preghiera, la Guida, la Promozione del Virtù e la prevenzione del vizio, il ministero che al tempo del primo Emirato gestiva la famigerata polizia morale.

Le circa 900 lavoratrici del ministero sono costrette a casa, escluse dal lavoro. Le bambine e le ragazze sono escluse dall’istruzione statale e privata. Vale per le classi dalla 7 alla 12: le bambine possono studiare fino alla sesta classe, frequentare le scuole primarie, come sta avvenendo già in alcune aree del Paese. Ma non potranno proseguire gli studi, né ottenere un diploma.

UNA DISCRIMINAZIONE che riguarda un’ampia parte della popolazione. E che i Talebani giustificano come misura temporanea. Temporanee, ricordano in molti, dovevano essere anche le misure adottate nel primo Emirato. Cambiate soltanto nel 2001, quando venne rovesciato militarmente.

Non hanno fatto riferimento al diritto allo studio delle ragazze afghane i leader politici che ieri si sono incontrati, qualcuno de visu e qualcuno via Internet, a Dushanbe, capitale del Tagikistan, in occasione del ventesimo Consiglio dei capi di Stato dei Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco).

UN INCONTRO IMPORTANTE perché include tutti i Paesi che per vicinanza geografica sono costretti a fare i conti con il nuovo scenario afghano: i Paesi fondatori nel 2001 della Sco, la Cina, il Kazakistan, il Kirghizistan, la Russia, il Tagikistan e l’Uzbekistan, i due che si sono aggiunti nel 2017, India e Pakistan, più l’ultimo arrivato, l’Iran, entrato a farne parte ufficialmente proprio ieri.

Ospitata in Tagikistan, uno dei Paesi che ha apertamente condannato la conquista del potere da parte dei Talebani, denunciato l’afasia della comunità internazionale e chiesto l’apertura di corridoi umanitari per la regione afghana del Panjshir, la conferenza ha prodotto posizioni comuni di massima, senza risolvere le diverse posture regionali. Per esempio tra chi, come Islamabad, pensa di poter capitalizzare la vittoria dei Talebani e chi, come l’India, vede il ritorno al potere dei turbanti neri come pericoloso, anche per l’effetto galvanizzante sul jihadismo regionale, su cui aveva già insistito il primo ministro indiano Narendra Modi.

DUE I PUNTI PRINCIPALI emersi a Dushanbe: l’appello per un governo davvero inclusivo, che sostituisca quello tutto targato talebano annunciato il 7 settembre, su cui il primo ministro pachistano Imran Khan è sembrato fiducioso. E l’invito a Washington e ai Paesi della Nato a farsi carico dei costi per rimettere in moto l’economia afghana e affrontare la crisi umanitaria, come chiesto in particolare dal presidente russo Vladimir Putin. Il discorso di Putin è semplice: i danni li avete fatti voi, a voi il compito di occuparvi dei costi.

I due punti si tengono. Se i Talebani non si mostrano più pragmatici, flessibili, inclusivi, i soldi arriveranno con molte più difficoltà. Che già sono tante. Sia per le divisioni all’interno dei Paesi della regione, sia perché suddividere i costi di venti anni di guerra è un’operazione politicamente delicata. Il blocco euro-atlantico ha risposto al recente appello dell’Onu per fronteggiare, almeno nei prossimi mesi, la crisi umanitaria, ma ha come priorità riportare a casa quanti – tra collaboratori e cittadini dei vari Paesi – sono ancora in Afghanistan. Poi preferirebbe un «arrivederci e grazie» rispetto al prolungato impegno finanziario invocato dalla Sco.

INTANTO, dall’aeroporto internazionale di Kabul ieri è partito il terzo volo charter dal ritiro dell’ultimo soldato statunitense, tra il 30 e 31 agosto. Diretto a Doha, capitale del Qatar, l’aereo trasportava circa 170 passeggeri di varie nazionalità: afghani, statunitensi, ma anche europei, dal Belgio alla Croazia. Secondo l’agenzia Reuters, c’erano anche dei cittadini italiani.