Io Capitano ce l’ha fatta. Il film di Matteo Garrone è entrato nella cinquina dei migliori film internazionali in corsa per l’Oscar. Adesso per sapere come andrà si deve aspettare il prossimo 10 marzo, quando al Dolby Theatre di Los Angeles saranno consegnate le statuette. E gli avversari in questa corsa finale sono agguerriti, da Perfect Days di Wim Wenders a La zona di interesse di Glazer – che è presente anche in altre categorie fra cui miglior regia e film.

È questa della cinquina una bellissima notizia perché premia il lavoro di un regista quale Garrone che sin dai suoi esordi negli anni Novanta è stato attento a un confronto con la realtà del proprio tempo, cercando nei diversi passaggi che scandiscono la sua filmografia una giusta invenzione formale con cui restituirla. Vale per gli inizi, «piccoli», o persino intimisti, spesso giocati sul bordo di documentario e finzione come potevano essere Terre di mezzo (1996) o Estate romana (2000), fino a quei titoli che hanno «creato» un immaginario quali Gomorra (2008) o Reality (2012), uniti dall’esplorazione costante di una visione del mondo che si fa metodo di cinema, ricerca, geografia del presente.

Io Capitano parla di migranti che sono al centro della nostra contemporaneità, che anzi ne determinano un certo assetto politico, sociale, culturale in cui è mutato lo stesso senso di democrazia. Le barriere, gli accordi coi governi più illiberali per tenere fuori dai confini europei – e non solo – chi si muove come sempre è accaduto nella storia dell’umanità in cerca di nuove occasioni di vita, lavoro, per fuggire a guerre o a persecuzioni. I migranti sono divenuti i nemici, il «fantasma» cavalcato da neoliberismo e destre per giustificare povertà e controllo, il nemico da perseguitare, da lasciare al suo destino in mare. I due giovani protagonisti di Io Capitano sfuggono però a quell’immagine che spesso, anche con le migliori intenzioni, racchiude la rappresentazione dei migranti mostrandoli unicamente come vittime. Seydou e Moussa sono due ragazzi come tanti, hanno molta incertezza del futuro, ma soprattutto sono spinti a avventurarsi in quel viaggio – di cui conoscono i pericoli – dal desiderio comune a tanti della loro età di scoprire il mondo. Solo che per altri è semplice, per loro quella scoperta diviene violenza, umiliazione, morte.

Qualcuno ha criticato al film la scelta di immagini troppo «belle», la visione di un deserto favolistico come se nella sofferenza di chi lì vede la morte a ogni passo non vi sia il diritto nei sogni o nel rifugio dell’immaginazione alla bellezza – che deve poter essere un diritto di tutte e di tutti – anche se non sempre lo si crede.
In questo che diviene un romanzo di formazione terribilmente attuale, Garrone accompagna i suoi personaggi in un’esperienza personale e collettiva, e insieme a loro ci rivela situazioni e luoghi che conosciamo dalla cronaca senza però averne mai toccato il vissuto, con prossimità senza retorica in cui guardare. Perché il cinema di Matteo Garrone nonostante il respiro dei suoi spazi non è a differenza di altri un cinema sensazionalista, che vuole accarezzare anche sfacciatamente i miti riconoscibili o quei meccanismi di stupore fatti passare per grande invenzione di regia. È invece un cinema di delicatezza e di emozioni umanissime avvicinate con pudore, che esclude ogni traccia di arroganza, e proprio in questa discrezione sa spiazzare la visione comune.

Ieri alla notizia sono fioccati i complimenti anche istituzionali, di quel governo oggi in carica che sulla vita dei migranti specula quotidianamente con proclami e accordi internazionali. E che mostra un disprezzo per il lavoro culturale fatto finora, liquidato unicamente come un gioco di poltrone – «le carte adesso le do io» ha detto a proposito della cultura la premier Meloni in tv manco fossimo a una serata di tressette. Ma se abbiamo i film di Garrone, tra i firmatari della lettera contro la modalità di nomina della direzione del Teatro di Roma, e di altre e altri è grazie a un lavoro appunto reso possibile, seppure con intralci e criticità negli anni, che nella eterna (e un ormai noiosamente abusata) lamentela della cultura come «affare di sinistra» da parte della destra si limita a essere questione di tessere o di «affari di famiglia». E che ha permesso al cinema italiano di ritrovare un interesse internazionale e di far emergere talenti seguiti con attenzione nel mondo dopo lunghi periodi di esiti assai meno felici. Non si tratta certo di quel «nazionalismo» auspicato in qualche discorso qua e là, anzi ne è l’esatto contrario. E tantomeno dell’occupazione a ogni costo in nome di Dio patria e famiglia che caratterizza i «nuovi corsi». Quando si andrà a sfoggiare il vestito migliore a Los Angeles sarà bene non dimenticarlo.