Un’economia che distrugge. Distrugge l’Amazzonia, contamina i fiumi nelle terre indigene, legalizza l’occupazione di terre pubbliche per la deforestazione, amplia l’estrazione illegale dei metalli preziosi, sottrae i diritti delle famiglie di agricoltori e dei piccoli produttori, riduce il controllo per le licenze ambientali e apre spazi per la creazione e l’espansione di enormi aziende latifondiste. Tutti questi aspetti rimandano, in un documento della ong Greenpeace Brasil, a progetti di legge in corso nella Camera dei Deputati che delineano uno dei volti più oscuri della necropolitica del governo Bolsonaro.

L’ULTIMA SETTIMANA ha visto l’ennesimo “progresso” di questa politica in nome della crescita economica: la stessa camera legislativa ha approvato il progetto di legge 6.299/2002, battezzato da Greenpeace il «Pacchetto Veleno». Il progetto allenta le regole sull’uso di nuovi pesticidi e concentra in modo esclusivo in capo al ministero dell’Agricoltura l’ispezione e l’analisi di questi prodotti per uso agricolo, in precedenza sottoposti anche all’Agenzia nazionale di sorveglianza sanitaria (Anvisa) e al ministero dell’Ambiente. Studiosi e ambientalisti avvertono su una serie di rischi legati ai pesticidi, come l’aumento delle sostanze cancerogene negli alimenti e la contaminazione del suolo e delle fonti d’acqua.

Ora il disegno di legge passerà al Senato per la sua approvazione. Per il settore “ruralista” all’interno della Camera dei Deputati e i suoi alleati – uno dei pilastri del governo Bolsonaro – la legge aiuterà a «modernizzare» l’attività agricola, in particolare la produzione di soia, che ha un peso importante nelle esportazioni brasiliane.

Dal 2019 il governo brasiliano ha autorizzato l’uso di oltre 1.500 pesticidi, molti dei quali vietati da anni nell’Unione europea, come gli erbicidi Ametrine e Tebutiuron, banditi nel 2002 per essere stati associati all’insorgenza di tumori e alla contaminazione di acqua e di diversi organismi. In Brasile ora sono usati contro le piante invasive nelle colture di ananas, cotone, banana, caffè, canna da zucchero, agrumi, mais e uva, tra le altre.
Uno studio del 2021 dell’Azienda brasiliana di ricerca agricola (Embrapa) ha analizzato i dati della produzione di grano e ha scoperto che l’agrobusiness brasiliano alimenta circa 800 milioni di persone nel paese e all’estero. La quota del Brasile nel mercato alimentare mondiale è balzata da 20,6 miliardi di dollari a circa 100 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, con particolare attenzione a carne, soia, mais, cotone e prodotti forestali.

Ma nonostante l’abbondanza della produzione e le immense superfici coltivabili, 116 milioni di brasiliani vivono in una situazione di insicurezza alimentare, pari a più della metà delle famiglie, secondo una recente indagine nazionale della Rete Penssan (Rete brasiliana di ricerca in sovranità e sicurezza alimentare). La grave insicurezza alimentare colpisce il 9% della popolazione e mette insieme problemi come la mancanza di accesso quotidiano a importanti nutrienti e il consumo eccessivo di alimenti ultra-processati. I numeri sono aumentati dopo l’elezione di Jair Bolsonaro alla presidenza e la crisi economica legata alla pandemia, facendo tornare il Brasile nella cosiddetta «Mappa della Fame» delle Nazioni unite.

TRA IL 2004 E IL 2013, dopo la creazione di alcuni programmi sociali per combattere la fame come Bolsa Família, il paese era uscito dalla famigerata lista e la quota di popolazione che soffriva la fame era scesa al 4,2%, il livello più basso fino ad allora. Dopo l’impeachment di Dilma Rousseff nel 2016, il Paese è tornato nella Mappa della Fame. La disuguaglianza si fa sentire anche nell’uso dei terreni agricoli: secondo l’Oxfam (2019) meno dell’1% delle proprietà agricole possiede il 45% dell’area rurale brasiliana.