Case fatiscenti, taxi scassati, bambini giocolieri ai semafori, venditrici ambulanti di chicha o empanadas si alternano a centri commerciali, signore ben truccate e suv rilucenti. Siamo nel centro di Santa Cruz de la Sierra, nell’oriente boliviano. La città si sviluppa ad anelli concentrici, e non troppo lontano da qui, procedendo verso l’esterno, le strade sono sterrate e piene di enormi buche. Qui regna invece il cemento, il rumore dei clacson e sui cruscotti di tutti i mezzi intrappolati nel traffico ci sono peluche scoloriti e rosari, mentre dai finestrini abbassati escono parole d’amore intessute su un tappeto sonoro di salsa e cumbia. Ovunque, ci sono enormi scritte a ricordare che «Gesù ti ama».

La città, tropicale, è cresciuta a dismisura nell’ultimo ventennio, fino a diventare la più popolosa della Bolivia. Il 30% del prodotto interno lordo del paese proviene da questa contraddittoria metropoli, che sulla spinta della crescita economica ha iniziato un processo di autonomia rispetto al resto del paese. Ci sono, infatti, una Bolivia andina e una Bolivia orientale, la Bolivia delle popolazioni meticcie definite «camba», di cui Santa Cruz è la roccaforte. Negli anelli esterni della città la povertà è un fatto dichiarato e la qualità di vita uniformemente bassa. È lì che vivono molte famiglie provenienti dalle altre province, emigrate alla ricerca di lavoro e che non sono riuscite ad alzare il livello di qualità della loro vita. Ma qui, nel cuore pulsante della città, le differenze si fanno ancora più nette ed evidenti.

Plaza 24 de Septiembre, con la sua bianca cattedrale e le alte palme, è disseminata di troni in legno dove la borghesia locale può accomodarsi mentre i lustrascarpe, chini, fanno il loro lavoro. Siamo a pochi passi dal centro di accoglienza per ragazzi di strada «Techo Pinardi», parte del Progetto Don Bosco, nato venti anni fa per volere di padre Ottaviano Sabatin. A venirmi incontro è l’educatore boliviano Fernando Moscozo. Prima di entrare, si accorge che il mio sguardo si è posato su un ragazzo, a pochi metri dall’entrata. Avrà vent’anni e ondeggia avanti e indietro fissando un punto indefinibile davanti a lui. «Ricardo, si chiama Ricardo. È sempre strafatto, purtroppo. L’unica cosa di cui sembra consapevole è che non vuole allontanarsi da questa strada, perché è affezionato al nostro centro, dove veniva fino a un paio d’anni fa. Eravamo riusciti anche a fargli frequentare un corso di formazione professionale, stava andando nella giusta direzione. Poi le droghe hanno vinto, lui è finito in un canale di scolo, con quelli della Bola Ocho, una banda. È diventato maggiorenne e non c’è stato molto da fare».

Una volta nel centro, Fernando urla: Levantarse chicos, levantarse («sveglia ragazzi, in piedi!»). Un branco di ragazzi dagli occhi stanchi, ancora semichiusi, esce dalle camerate e si dirige a testa bassa verso il bagno. Nascondono le braccia dentro le magliette stinte per proteggersi dal fresco di una mattina come tante, i piedi neri, scalzi e l’andatura ricurva. Alcuni di quegli sguardi, ruvidi come carta vetrata, sono incorniciati dal ricordo lasciato da una scazzottata. Le gambe mostrano una collezione di tagli e qualche tatuaggio di pessima fattura. Alcuni si sdraiano in un angolo a terra, per guadagnare qualche minuto di sonno in più, prima di iniziare un altro lungo giorno. Giusto il tempo di lavarsi il viso e i ragazzi sono pronti a prendere di petto la vita. Iniziano a esibire la loro esuberanza calciando un vecchio pallone scucito, strillando e offendendosi l’un l’altro.

«La porta di questa casa è sempre aperta per loro – spiega Fernando -. Qui ricevono assistenza medica e psicologica, tre pasti al giorno, un letto e hanno la possibilità di svolgere attività manuali, praticare sport, riprendere gli studi. Solo in pochissimi non cedono però alla tentazione di tornare in strada. È complesso abituarli ad avere delle regole e delle responsabilità e tenerli lontani dalla droga».

«Quello con il cappello bianco, laggiù, è Juan», dice, facendo un cenno della testa. «Sono cinque anni che entra ed esce dalla casa di accoglienza. Lo vedi com’è agitato? È in crisi d’astinenza. Un paio d’ore ed è fuori». Fernando è sommesso e rassegnato. Lavora nel centro da anni e di minori come Juan ne ha visti passare tanti. Neanche stavolta si sbaglia: el clefero va a volar! strilla Felipe, 13 anni, mentre Juan varca la porta per tornare in strada. I cleferos, nel gergo locale, sono i consumatori di colla e volar significa aspirare. La colla da calzolaio, con cui spesso i ragazzi di strada si trovano a lucidare le scarpe dei cittadini più ricchi, ha per loro quest’altro uso.

Problemi neurologici, allucinazioni, cambi di personalità, problemi motori, perdita di coordinazione, difficoltà a camminare e a parlare, abbassamento della vista e dell’udito, riduzione del flusso sanguineo al cervello: sono questi i danni permanenti causati dall’uso regolare degli inalanti. La struttura cerebrale e le sue funzionalità sono alterate, così come il temperamento del consumatore, in cui si genera una forte apatia e disinteresse per la vita; ma la colla abbonda sul mercato, ha un prezzo più che accessibile e per di più non è considerata una droga illegale, nonostante milioni di polmoni adolescenti siano pieni di questi veleni.

Secondo l’Unicef, nel mondo ci sono 100 milioni di minori in strada, una cifra che non accenna a diminuire da più di un ventennio. L’America Latina è il continente dove si registra il più alto numero di minori (40 milioni) che vivono fuori di casa e senza la protezione di alcun familiare. Circa la metà di questi bambini e adolescenti inala colle industriali, dando luogo a un consumo di settantasette milioni di litri ogni mese.

Jesus, sedici anni, è un grande oratore e si mostra contento di illustrare la realtà che vive. «Non mi piace rubare, so che è sbagliato, per questo lo faccio solo quando ho volato. Se rivendo un cellulare, posso mangiare due giorni e dormire in una pensione. Di solito lustro scarpe o suono il flauto sugli autobus, ma ci metto molto più tempo per guadagnare gli stessi soldi. Sono due anni che me ne sono andato di casa. Mio padre beveva e mi picchiava. Prima di arrivare qua dormivo fuori dal Cine Center», uno dei più grandi avamposti commerciali della città, uno di quei posti dal volto duplice, frequentato dentro da gente in preda allo shopping e fuori da bambini indigenti. Come Jesus, la maggior parte di questi ragazzi potrebbe vivere in una casa. Preferiscono la strada, perché in nove casi su dieci hanno subito violenze fisiche o psicologiche o sono stati costretti a lavorare sin da piccoli.

Nel centro di accoglienza, c’è una sola ragazzina, gli altri sono tutti maschi. Si chiama Rocio, ha capelli neri come liquirizia, dimostra molto più dei suoi quindici anni e nonostante le cose che racconta conserva un ampio sorriso. «Sono cresciuta con mia nonna, ho saputo chi era la mia mamma solo quattro anni fa», spiega. «Ogni tanto veniva a casa e ho cominciato a chiedere –‘nonna, chi è questa signora? Perché viene qui da noi?’ -. Così mia nonna mi ha spiegato. Ogni tanto vado a trovarla, dorme in una via dietro la stazione degli autobus, ma non mi riconosce quasi mai perché si droga. Devo dirgli sempre – ’Mamma, sono io’». Quando chiedo a Rocio come mai non ci sono altre bambine nel centro, mi risponde dicendo che «lavorano».

Le minorenni in strada sono meno dei loro coetanei, ma quasi tutte si prostituiscono. Anche lei lavora. Da quasi un anno vive tra marciapiedi e motel da quattro soldi. Si trova nel centro di accoglienza perché è al quarto mese di gravidanza. È passato molto tempo dall’ultima volta che ha varcato la soglia di casa sua. Per anni ha lavato i vetri delle auto con suo fratello minore ed entrambi hanno dovuto lasciare la scuola. In una di quelle lunghe giornate di lavoro, Rocio ha incontrato Gabriela, il suo «capo».

«Gabi è la mia migliore amica, mi regala un sacco di cose. Questa maglietta, il lucidalabbra perlato, gli orecchini… mi ha dato tutto lei. È bella e poi in strada tutti la rispettano, anche i maschi. Vorrei diventare come lei», dice. Gabriela vende Rocio ai suoi clienti. È per questo che Rocio ora ha indosso un lucidalabbra perlato, una maglietta alla moda che inizia a starle stretta e un bambino nel grembo. La sua situazione non è eccezionale. Il 33% delle donne incinte che arrivano alla maternità in Bolivia sono, infatti, adolescenti, e una su tre è stata vittima di violenza sessuale. Soltanto nel 2010 e senza includere i dati delle province, nella sola città di Santa Cruz, le gravidanze delle adolescenti sono state 25.521. Più della metà delle minorenni coinvolte, ha abbandonato gli studi. Sono quelle che il governo non riesce a raggiungere con il suo programma di protezione della maternità, che prevede l’assistenza gratuita nelle fasi pre-natali, natali e post-natali, con trattamenti medici specializzati, dotazione di medicine e appoggio alimentare, oltre che con l’assegno materno «Juana Azurduy».

Enrique dice invece di essere padre, ma non si ricorda quanti mesi ha ora suo figlio. E come Ivan, non sa quando è il suo compleanno. Entrambi non hanno mai festeggiato fino a che sono arrivati nel centro di accoglienza, dove hanno scelto una data e ogni anno possono finalmente spegnere le candeline. Per lo stato boliviano sono un dato statistico, due gocce in quell’oceano di persone che non essendo stata registrata alla nascita non può contare sull’assistenza sanitaria né frequentare le scuole. Hanno un solo cognome, anche se in Bolivia quasi tutti ne hanno due. Enrique e Ivan hanno solo i cognomi delle loro madri, che li hanno abbandonati qualche tempo dopo il padre, che non conoscono.

Fernando ha finito il turno di lavoro. Quando usciamo, ritroviamo Ricardo. Continua a ondeggiare con il corpo avanti e indietro fissando un punto indefinibile davanti a lui, proprio come quando siamo entrati. Giriamo lo sguardo. Seduto sul marciapiede, c’è Juan. Ha i vestiti sporchissimi, una sola infradito e un occhio nero. I bei capelli neri e ondulati che aveva non ci sono più. La polizia l’ha colto sul fatto durante uno dei suoi furti, l’ha picchiato e poi rapato, come si fa abitualmente, qui, per punire e riconoscere i criminali. Tempo prima gli hanno anche spaccato due denti davanti. Il corpo di Juan è il primo documento che testimonia la vita che conduce. Ogni giorno un nuovo graffio, un’autolesione.

Ci sediamo a terra accanto a lui e ci facciamo spiegare com’è andata, prima di farlo entrare e medicarlo in infermeria. Per qualche minuto possiamo guardare la prospettiva giornaliera di questo giovane. La gente che passa, le decine di piedi che camminano. Nessun sorriso, nessuna considerazione, soltanto disapprovazione, paura di sporcarsi e timore, accompagnati da una mano ben salda sul portafogli, «che non si sa mai». Tutti evitano il suo sguardo e in pochi passi sono già lontani. Lo sguardo di Juan evita invece di posarsi su Ricardo, anche se è proprio davanti ai suoi occhi.