Intervista a Ya-Wen Lei, autrice dello studio Delivering Solidarity: Platform Architecture and Collective Contention in China’s Platform Economy.

Sono 200 milioni (un quarto del totale) i lavoratori in Cina impiegati nella gig economy. Già nei primi mesi del 2020, il premier Li Keqiang aveva riconosciuto il contributo di questi lavori a chiamata e a termine nella riduzione della disoccupazione. Ma l’economia delle piattaforme che ruolo ha?
Di occupazione flessibile si parla in Cina già dagli anni ’80, quando sono nate quelle agenzie di collocamento divenute in poco tempo indispensabili per il settore manifatturiero, il quale ha bisogno di integrare manodopera nei periodi di grande flusso di lavoro. La diffusione di queste forme di lavoro a tempo ha fatto sì, negli ultimi anni, che si passasse da un modello convenzionale di occupazione, garante di un salario fisso e di certo grado di assistenza sociale, a una flessibilizzazione progressiva del lavoro. L’economia delle piattaforme, nata grazie ai progressi tecnologici, non ha fatto altro che velocizzare questo processo, in Cina come altrove, rendendo obsoleta la figura di un attore intermediario a cui subappaltare la ricerca di personale. Tutto è più facile e immediato.

In “Delivery Solidarity” ha teorizzato il concetto di “architettura della piattaforma” per esaminare gli aspetti tecnologici, legali e organizzativi di queste nuove occupazioni. La sua ricerca su che cosa si concentra?
La mia volontà era di affrontare alcune inadeguatezze degli studi esistenti sulla economia delle piattaforme focalizzati soltanto sulle modalità in cui le aziende usano gli algoritmi per controllare la forza lavoro. Ma mancava del tutto un’analisi sugli elementi che rendono possibile questi sviluppi, perché per ottimizzare il controllo algoritmico le aziende devono aggiornare di volta in volta le questioni legali e contrattuali.
Sebbene il concetto di “architettura della piattaforma” sia applicabile, ad esempio, anche ai servizi di ride-hailing le mie ricerche si sono incentrate sul settore del food delivery cinese, la cui struttura si basa su due tipi di piattaforme, quella gig e quella dei servizi, ognuna delle quali agisce secondo aspetti organizzativi, legali e gestionali differenti. I rider che lavorano per la piattaforma gig si iscrivono all’app e sono considerati lavoratori autonomi in quanto scelgono quando e dove lavorare. Il loro coordinamento è totalmente automatizzato. Quelli della piattaforma dei servizi, invece, vengono gestiti da supervisori umani. Stipulano un contratto tradizionale con un’azienda a cui la società di food delivery esternalizza il servizio di consegna. L’economia delle piattaforme, quindi, prevede forme occupazionali differenti malgrado in entrambi i casi sia l’algoritmo ad attribuire gli ordini e a calcolare i tempi di consegna.

Dalla sua ricerca emerge che il 40% dei lavoratori gig ha scelto di fare il rider per la maggior libertà concessa. Pare che, secondo quanto raccontato dai media cinesi, le occupazioni flessibili garantiscano un reddito stabile e un certo grado di libertà dai vincoli delle professioni tradizionali. Per guadagnare un salario decente, tuttavia, non basta neanche un turno di otto ore.
È proprio questo il punto. I fattorini gig hanno compreso che quel tipo di libertà che si immaginavano di fatto non esiste, ma sono mossi da un forte rifiuto della fabbrica. Dei 24 rider che ho intervistato a Chongqing, 18 hanno avuto esperienze precedenti nel settore manifatturiero e hanno raccontato di regole rigide e di aver vissuto tra dormitorio, mensa e luogo di lavoro. Le possibilità concesse dalla professione di fattorino, come muoversi in libertà e parlare con le persone, sono allettanti. Ma è chiaro per tutti quali sono i vincoli della piattaforma gig. Ad esempio, se rifiutano un certo numero di ordini difficili e poco remunerativi, sono obbligati a seguire una sorta di formazione molto dispendiosa in termini di tempo, pena l’esclusione dall’app. Molti, inoltre, hanno lamentato le iniziative che le società lanciano per “fidelizzarli” e per sopperire alle problematiche che si generano dalla supervisione automatizzata: nel 2019 Meituan ha introdotto il programma Happy Run (Le Pao), per i rider della piattaforma gig che hanno un alto feedback. Chi aderisce deve rispettare degli obblighi lavorativi, in cambio di una serie di vantaggi come una paga maggiore. Ma uno degli obiettivi delle società è quello di dividere i lavoratori e fare in modo che non siano solidali tra loro. E, inoltre, evitare che ci sia un calo di efficienza. Ci sono state molte manifestazioni di scontento per questa iniziativa, che devia totalmente dall’idea di flessibilità.
Nel suo studio ha sottolineato quanto i rider della piattaforma gig e quelli della piattaforma dei servizi siano attratti in maniera differente dall’azione collettiva.
In generale, il controllo tecnologico genera un certo grado di insoddisfazione, ma il design giuridico della piattaforma di servizi aiuta a stabilizzare i rapporti di lavoro: la figura del supervisore fisico, assente nel caso dei gig worker, modera i rapporti lavorativi e previene il formarsi di azioni collettive. Inoltre, questo tipo di fattorini è consapevole delle proprie tutele e può facilmente far fede a regole scritte. L’architettura della piattaforma gig, invece, permette la formazione di uno spazio libero in cui i rider possano organizzarsi e solidarizzare tra loro.
Il potere legale della società di cambiare i termini contrattuali, che rende le relazioni tra lavoratori e piattaforma profondamente impari, è la maggiore fonte di scontento per i rider gig e ciò che più di tutti li spinge a intraprendere azioni collettive. Pur non essendo informati di tali variazioni, si sono tutti accorti, nel corso degli anni, che per guadagnare una certa somma servissero due o tre ore in più al giorno di lavoro.

Ha scritto un saggio – “Revisiting China’s Social Volcano: Attitudes toward Inequality and Political Trust in China” – in cui analizza gli atteggiamenti dei cinesi nei confronti delle crescenti diseguaglianze. Cosa ne pensa delle critiche che le nuove generazioni dedicano sul web al difficile sistema occupazionale cinese e alla mancanza di prospettive?
Il mio predecessore a Harvard, il professore Martin K. Whyte, ha pubblicato un libro che si chiama “Myth of the Social Volcano”, dove analizza alcuni dati risalenti al 2004 che mostrano come, rispetto agli altri paesi, i cinesi abbiano tollerato meglio le diseguaglianze nella prospettiva del miglioramento delle future condizioni di vita. Proseguendo la sua ricerca nel mio articolo, è emerso che tra il 2008 e il 2014 il prezzo degli immobili ha subito un aumento vertiginoso, soprattutto nelle grandi città, e di pari passo è cresciuta la percentuale di coloro che affermano che in Cina l’attuale sistema politico viola il socialismo.
Ho da poco concluso delle interviste con oltre sessanta tra programmatori e ingegneri che lavorano per diverse aziende tecnologiche in Cina e la percezione di molti è di non beneficiare più di un certo prestigio. Gli stipendi dei lavoratori altamente qualificati sono di poco maggiori, se non quando uguali, a quelli dei fattorini. Ad oggi sempre più persone riconoscono una minore mobilità sociale. Soprattutto i giovani, i quali spesso si trovano a mobilizzare il marxismo, malgrado, secondo me, non siano davvero interessati a capirlo. Veicolano le proprie lamentele sui social, ma non credo che saranno in grado di intraprendere qualche azione seria, poiché hanno paura della reazione del governo, molto più di chi lavora come operaio o come fattorino. Questo perché i lavoratori migranti non possono sopravvivere senza salario e l’azione collettiva si configura come l’unica soluzione ai loro problemi. Molti ingegneri che ho intervistato, inoltre, credono nella validità del sistema in cui vivono e non sono interessati a metterne in discussione le fondamenta.