Alla domanda se pensasse di introdurre più donne nella sua amministrazione, posta nel corso di un incontro online alcuni giorni fa, Yoshiro Mori, presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo, ha risposto che se ci fossero più donne, visto che parlano troppo, le riunioni non finirebbero mai e per questo bisognerebbe limitare il tempo a loro disposizione.

Queste dichiarazioni sessiste non suonano, purtroppo, nuove per chi segue la politica giapponese, ma nel contesto internazionale in cui sono state profferite potrebbero diventare il colpo di grazia per l’evento sportivo posticipato a questa estate, data di inizio 23 luglio. Primo perché simbolicamente ha fatto venire a galla l’inadeguatezza di una classe politica vecchia e retrograda, l’ottantatreenne politico fu primo ministro del Giappone dal 2000 al 2001. Lo scandalo delle sue dichiarazioni che magari, come detto, in un contesto giapponese di qualche decennio fa, tristemente, non avrebbero sorpreso nessuno, fatte come portavoce di un evento globale che si vuole portatore di uguaglianza, anche di genere, sono molto di più che una caduta di stile.

In secondo luogo, le sue parole hanno scatenato una reazione a catena, molti sportivi giapponesi si sono fortemente dissociati dalle dichiarazioni di Mori, altre personalità del mondo dello spettacolo come il comico Atsushi Tamura, si sono ritirati dai vari eventi che girano attorno ai Giochi e molti dei volontari che dovevano partecipare e aiutare lo svolgimento delle Olimpiadi hanno già cominciato a tirarsene fuori. Tutto questo arriva quando secondo alcuni sondaggi più dell’ottanta per cento della popolazione giapponese è favorevole a un ulteriore posticipo o eventuale cancellazione delle Olimpiadi: la gestione di un evento così enorme, migliaia di persone, non solo atleti, provenienti da tutte le parti del mondo, sembra essere in netto contrasto con la salvaguardia della salute pubblica in tempo di pandemia.

Anche se i casi e i decessi nell’arcipelago sono inferiori rispetto a quelli registrati in Europa o America, lo scorso gennaio il primo ministro Suga, altro esempio di politico distaccato dalla realtà, i suoi consensi stanno andando a picco, ha dichiarato lo stato di emergenza in alcune delle prefetture più colpite dalla pandemia, Tokyo in primis. Non si tratta di lockdown, ma della chiusura dei locali e dei cinema alle otto di sera e di un invito alle grandi aziende a trasferire il lavoro, quando possibile, a casa. L’approccio sembra aver prodotto dei risultati, più per volontà e autodisciplina di gran parte della popolazione in verità, ma è impossibile esserne certi perché il numero dei test è francamente irrisorio rispetto a quanto fatto in altri paesi. Resta comunque il fatto che fino ad ora i decessi dovuti al Covid 19 in tutto l’arcipelago sono, dati aggiornati alla giornata di ieri, 6.172, su un totale di 399 mila casi registrati dall’inizio della pandemia.

Un’altra ombra che si staglia minacciosa sulla folle volontà di andare avanti con le Olimpaidi è la situazione dei vaccini. Fra i paesi del G7 il Giappone sarà infatti l’ultimo in ordine di tempo a cominciare le vaccinazioni, ufficialmente il personale ospedaliero impegnato in prima linea le riceverà il 17 febbraio, le persone oltre i sessantacinque anni e quelle più deboli solo a partire dal primo aprile, mentre il resto della popolazione probabilmente da giugno.

Una tabella di marcia che non tiene conto dei vari ritardi che potrebbero verificarsi per la forte domanda globale e per il fatto che i vaccini acquistati dal Giappone, Pfizer, Moderna e AstraZeneca, devono prima essere testati e approvati su suolo giapponese prima di poter essere usati, una lentezza della burocrazia che si incrocia anche con un sentimento di diffidenza generale da parte della popolazione. Nel 1993 a causa delle complicazioni con i vaccini per morbillo, orecchioni e rosolia si generò infatti un senso di diffidenza che da quel momento in poi, anche per una mancanza di educazione al riguardo, non è mai stata più superata.