Oltre a segnare la fine dell’esperimento di Unidad Popular, il golpe di Pinochet rappresenta un punto di non ritorno per la storia occidentale, che fino a quel momento sembrava pacificamente avviata verso una progressiva crescita democratica e di giustizia sociale. La presa del potere da parte dei militari a Santiago appariva destinata a rappresentare una parentesi più o meno lunga, dopo la quale inevitabilmente la crescita democratica e sociale avrebbe ripreso il suo percorso, come si intravedeva sarebbe successo alla morte ormai imminente di Franco in Spagna. Così non fu, perché con il golpe si insediavano a Santiago i Chicago boys, gli economisti al seguito di Milton Friedman, con il compito da parte USA di sperimentare in Cile l’imposizione del neoliberismo.

Per arrivare a una riduzione drastica della spesa sociale, alla repressione delle rivendicazioni salariali e contrattuali, all’eliminazione dei fermenti culturali e artistici che avevano caratterizzato il governo del Presidente Allende e in una parola per arrivare alla sostituzione dell’homo politicus con l’homo oeconomicus, occorreva eliminare tutto l’elemento umano che aveva partecipato attivamente all’esperimento di Unidad popular: intellettuali, politici, sindacalisti, artisti, giovani impegnati. Tutti coloro che erano portatori, insomma, di un desiderio di crescita e giustizia sociale dovevano venir spazzati via, sia eliminati fisicamente, sia imprigionati, sia costretti all’esilio. E così fu.

La professione di diplomatico mi portava a recarmi in missione a Santiago per pochi mesi, subito dopo il primo anniversario del golpe, quando i militari, ad evitare manifestazioni di strada, imponevano un altro giro di vite alla repressione, già feroce, portata avanti fino a quel momento. La conseguenza è che l’ambasciata d’Italia si riempie ancora una volta di rifugiati: se non ricordo male, circa 200 al mio arrivo.
La Santiago che vedevo portava ancora evidenti i segni del golpe: edifici bombardati, lunghissime file in attesa dei mezzi pubblici, servizi sanitari inesistenti, disoccupazione altissima, inflazione galoppante. Mi colpiva particolarmente che, quando si andava a cena in ristorante, tutti si portavano a casa quanto rimasto nel piatto.
In tale contesto, i rifugiati dell’ambasciata, politici o sindacalisti, alcuni con i propri nuclei famigliari, a volte anche con nonni e bambini, erano riusciti a creare una struttura in grado di autogestire la vita quotidiana di un gruppo di persone che spesso erano state torturate, o erano a rischio della vita. Nel caso migliore, li aspettava l’esilio per un tempo indeterminato.

Ogni aspetto della vita quotidiana formava oggetto di un’apposita commissione: pulizia, cultura e tempo libero, scuola per i 40 bambini, sicurezza ed esame politico dei nuovi arrivati ad evitare la presenza di infiltrati, la cucina, ecc. Ogni commissione era costituita da un rappresentante di ogni partito presente in ambasciata. Le commissioni venivano poi coordinate da un Comitato politico, la cui composizione rifletteva il numero di presenze in ambasciata di ogni partito. A sua volta, il Comitato Politico eleggeva il Presidente. Questa complessa struttura da piccola Polis greca faceva sì che tutto funzionasse alla perfezione, malgrado l’insicurezza in cui si viveva, data la possibilità di attacchi da parte dei militari di Pinochet, che mal sopportavano quell’enclave democratica in stridente contrasto con la situazione a Santiago, l’incertezza del comportamento che il governo italiano avrebbe adottato, dato che aveva fino a quel momento deciso di non ammettere in Italia altri rifugiati dall’ambasciata, l’angoscia per la sorte dei propri famigliari rimasti fuori dall’ambasciata.

La grande ricchezza dei rifugiati erano due linee telefoniche, a onor del vero mai tagliate né dai militari, né da parte italiana. Si trattava ovviamente di linee tenute sotto controllo da parte cilena, ma ciò non impediva ai rifugiati di mantenere costanti contatti con il mondo esterno, con i partiti politici che in Europa simpatizzavano con la loro causa e con la stampa internazionale. È stata questa la forza che permetteva loro di creare un fronte alternativo in grado di giocare la partita con gli altri due macroprotagonisti, i governi italiano e cileno, entrambi decisi a chiudere la turbativa creata nei rapporti diplomatici dalla presenza dei rifugiati e decisamente non facili a commuoversi per la sorte di questi ultimi.

È stata un’esperienza democratica esemplare, cui si metteva fine da parte italiana con l’invio a Santiago di due funzionari, uno dei servizi, l’altro della Farnesina, con l’incarico di prendere diretto contatto con i militari al potere, malgrado il mancato riconoscimento del governo cileno da parte italiana, per abbozzare un accordo che avrebbe permesso la partenza dei rifugiati per l’Italia, a cambio dell’adozione sia da parte italiana, che da parte cilena, di tutte le misure atte ad impedire ulteriori arrivi di candidati all’asilo politico (innalzamento del muro perimetrale dell’ambasciata, collocazione della concertina in cima allo stesso, da parte italiana, rafforzamento della sorveglianza, da parte cilena).

Alla fine, tutti i rifugiati riuscivano partire, ma allo stesso tempo si chiudeva l’ultima porta ancora aperta a Santiago, per chi era in fuga per la vita.