Se le voci di una possibile liberazione degli stranieri tenuti in ostaggio da Hamas continuano a rincorrersi, per ora son solo promesse. Lo sanno bene in Thailandia, il Paese che con Stati uniti e Argentina, ne condivide il maggior numero: 22 secondo l’ultima stima. Nondimeno Bangkok, dopo un’iniziale choc e qualche improvvida dichiarazione molto sbilanciata su Israele, ha cambiato registro. E ha deciso di non affidarsi solo al suo principale alleato forte, gli Stati uniti, né tantomeno alle promesse di rito, poco rassicuranti, di Benjamin Netanyahu che ancora ieri diceva con una telefonata al premier tailandese Srettha Thavisin che Tel Aviv farà del suo meglio. Il governo thai ha dunque messo in piedi una sua strategia puntando soprattutto su due poli: Hamas, con cui ha trovato un contatto diretto. E i paesi arabi, dal Qatar all’Egitto.

Le due strade sono state affidate a gruppi separati: la missione nei paesi del Medio Oriente è nelle mani del ministro degli Esteri Parnpree Bahiddha-Nukara, arrivato martedì scorso a Doha, in Qatar, dove ha incontrato il suo omologo Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. Poi però ha anche visto il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdullahian prima di ripartire per il Cairo.

L’ALTRA MISSIONE, incaricata dal Parlamento e dunque apparentemente di secondo piano, è invece quella che forse ha portato a casa più risultati. Incontrando direttamente Hamas e strappandogli una promessa sulla liberazione dei thai. La missione, accompagnata da un leader sciita di rango – Syed Sulaiman Husaini – ha incontrato gli emissari del gruppo islamista a Teheran, sotto i buoni auspici della presidenza della Repubblica islamica. Era formata da persone che sono espressione dell’islam tailandese (il 5% della popolazione), come Areepen Uttarasin, un politico della provincia di Narathiwat (una delle tre a maggioranza musulmana), da Lerpong Syed, fratello di Syed Sulaiman Husaini e da Sayyid Mumin Sakkitticha. Ieri, in una conferenza stampa, hanno ribadito quanto già emerso dai primi colloqui a Teheran iniziati oltre una settimana fa. E cioè che Hamas è ben disposta verso i tailandesi e pronta a liberarli ma che questo non sarà possibile fino a che Gaza si trova sotto le bombe. Il che, detto così, è solo un mezzo successo della missione che almeno ha però un interlocutore con cui altri non parlano.

IL VIAGGIO del ministro degli Esteri cerca invece di stabilire buone relazioni nell’area e ricordare che la Thailandia ha riconosciuto lo stato palestinese nel 2012 e respinto la decisione di sostenere Gerusalemme capitale nel 2017. Un modo per correggere la percezione che la Thailandia, solido alleato di Washington e in ottimi rapporti con Tel Aviv che consentiva a 30mila thai di lavorare nelle sue aziende agricole, non sia amica anche dei palestinesi. E un modo per garantirsi un’uscita eventuale dal valico di Rafah controllato dal Cairo.
Qualche scintilla con Tel Aviv c’è comunque già stata. Giovedì scorso, l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan, ha mostrato un video attribuito ad Hamas che mostrava la decapitazione di un bracciante tailandese. Bangkok non ha gradito. Ha risposto che mostrare quel video era irrispettoso verso la vittima e la famiglia.