C’è sempre un effetto straniante quando si apprende la scomparsa di un nome storico consegnato già al passato dalla sua assenza dalla cronaca dell’attualità. Succede molto di più quando, come nel caso di Hubert de Givenchy, il suo nome si è trasformato in una Maison che dal suo allontanamento a oggi è stata retta da cinque nomi diversi, John Galliano, Alexander McQueen, Julian McDonald, Riccardo Tisci, Clare Waight Keller, con altrettante diversità di veduta e con altrettante differenze rispetto al suo fondatore. Hubert de Givenchy è scomparso sabato 3 marzo, ma la famiglia lo ha comunicato nella mattina di due giorni dopo, a 91 anni. Figura di spicco della moda del secondo dopoguerra, uomo di una cultura composita, figlio di una famiglia borghese protestante della provincia francese di Beauvais che non avrebbe mai voluto che un suo figlio lavorasse nella moda, Monsieur Hubert è stato una figura anomala in un mondo che ha lottato per diventare influente nella cultura della modernità. Tanto anomala che fu uno dei primi a vendere il proprio marchio all’allora nascente gruppo del lusso Lvmh capeggiato da Bernard Arnault.

Era il 1988, un’era che oggi appare anti-diluviana, ed è il 1991, dalla mostra organizzata al Palais Galliera a Parigi, che i vestiti usciti dalle sue mani di sarto con perizia di taglio e cucito non appaiono nella loro fisicità. Di lui ci si ricorda perché il suo stile ha formato la diva Audrey Hepburn e per gli abiti che la stessa attrice ha indossato in Cenerentola a Parigi (1957) e in Colazione da Tiffany (1961). E fu proprio il tubino nero del film di Black Edward tratto dal romanzo di Truman Capote a segnare per sempre il destino di un sarto che suppliva con il gusto un’immaginazione mossa da un meccanismo tradizionale. Nato nel 1927, approda a Parigi nell’immediato dopoguerra. Nonostante la proibizione della famiglia, trova subito lavoro da Jacques Fath dove viene colpito da «un’atmosfera mondana, profumatissima, sensuale e pericolosa».

Per riconciliarsi con la famiglia approda dal sarto svizzero protestante Robert Piguet che, però, lascia per andare da un’altra peccaminosa, l’italiana amica dei surrealisti Elsa Schiaparelli. «Quei quattro anni in un atelier che non assomigliava a nessun altro, con una sarta che non era sarta ma artista e circondata da artisti, furono una base che gli permise in seguito di unire sempre all’eleganza, al classicismo, al perfezionismo delle sue creazioni un quid di fantasia, di effetto sorpresa, di eccentricità che sono il suo stile», ricorda in un suo ritratto Maria Pezzi negli anni Ottanta all’indomani del suo ritiro dall’atelier. Un effetto sorpresa che si è manifestato subito al suo debutto in proprio nel 1952, quando inventa una camicia maschile con un triplo strato di volant sulle maniche che termina verso il polsino: è la «blusa Bettina», dal nome della modella che l’indossa, che resterà per sempre il suo pezzo più riconoscibile, dopo il tubino della Hepburn.

Ma la sua fortuna arriverà nel 1968, quando l’amico Cristóbal Balenciaga si ritira per sempre e gli cede le clienti: Lauren Bacall e la duchessa di Windsor Wallis Simpson, Jean Seaberg, Grace di Monaco e Jacqueline Onassis. L’arrivo della nuova generazione degli anni Ottanta, da Thierry Mugler a Claude Montana, ha però fatto invecchiare di colpo il suo stile e a quel punto Hubert ha avuto l’intelligenza di ritirarsi e consegnare il suo camice e il suo ditale (continuava a lavorare così) a un ribelle di quegli anni, John Galliano. E in questo è stato un magnifico esempio, purtroppo poco seguito.